
E Pavese disse: “Non fate troppi pettegolezzi!”
“La tendenza che si sta affermando ultimamente propone ribaltamenti di vicende arcinote, probabilmente più per il gusto di suscitare sorpresa, incuriosire i lettori, porsi all’attenzione dei media che per autentico dovere di cronaca o spirito di servizio”
di Romano Pesavento
Il revisionismo è di gran moda in quest’ultimo periodo, specie quando s’avvicinano le ricorrenze importanti (per esempio, il centenario della nascita di Cesare Pavese, 9 settembre 1908). Un approccio problematico e critico nei confronti dei fenomeni storico-

Una questione assai dibattuta riguarda l’ipotetica adesione al fascismo di Cesare Pavese. Immediatamente il cuore di chi è schierato a sinistra subisce un contraccolpo solo alla semplice formulazione di un simile sproposito. Eppure non è con il sentimentalismo che si scioglie un nodo del genere. Non abbiamo avuto la fortuna e l’onore di conoscere un intellettuale di tal levatura, ma certamente quando fu pubblicato, giorno 8 agosto 1990, a sorpresa, sul quotidiano La Stampa il taccuino segreto dello scrittore piemontese, molti nell’ambiente letterario, ebbero modo di contribuire ad una interpretazione attenta dell’evento. Indubbiamente, alcune espressioni, riflessioni o esternazioni di Pavese contenute nel famoso diario indulgono ad una valorizzazione di alcuni aspetti legati al fascismo: “Solo gli antifascisti sanno il pregio del fascismo: tutto ciò che loro manca. E s’è visto che mancano di tutto.(…) Gli intellettuali hanno contato troppo nella vita italiana. Essi sono vili, litigiosi, vanitosi. Bisogna tornare allo Stato, alle personalità politiche superiori a quelle della cultura. Dicono che sarebbe barbarie, ma non è vero. Sarebbe ordine.(…) Il fascismo aveva posto dei problemi, se anche non tutti risolti. Questi salami negano fascismo e problemi e poi dicono che saranno risolti. Ci si vuol coglionare?(…)Una cosa fa rabbia. Gli antifascisti sanno tutto, superano tutto ma quando discutono litigano soltanto… È mostra ben che alla virtù latina o nulla manca o sol la disciplina…Il fascismo è questa disciplina. Gli italiani mugugnano, ma in



Fra tutte queste “letture” autorevoli e ragionevoli sulla figura di Cesare Pavese, probabilmente la più autentica, la più condivisibile risulta proprio quella di Fernanda Pivano, discepola e frequentatrice assidua dello scrittore piemontese, con estrema lucidità, richiama tutti al silenzio circa quello che può essere la verità più profonda e insondabile dell’animo di Pavese: nessuno potrà mai interpellare il diretto interessato e chiedere ragione di poche righe, privatissime, mai divulgate ufficialmente. Possibile che uno scrittore come il Nostro, benché avesse già manifestato un certo senso di estraneità nei confronti della politica marxista durante gli anni ’50, quando era semplice ed utile ad un intellettuale appoggiare il comunismo, fosse comunque addirittura fascista? Possibile che dietro a tutte le opere e i miti pavesiani ci fosse l’adesione alle idee autoritarie e liberticide del fascismo? Davvero difficile da credere, soprattutto per un uomo che, bene o male, è stato oggetto dell’odioso provvedimento estremo chiamato “confine”. C’è stato addirittura chi avrebbe individuato pagine inneggianti al fascismo nel celeberrimo, celebratissimo, “La luna e i falò”. Mah. Cosa dire? A volte, per suscitare interesse, si sostengono, con tanto vigore e poca documentazione, ipotesi francamente forzate. Si potrebbe aprire un dibattito e girare la questione anche ai nostri lettori. Noi leggendo il libro non ci siamo davvero mai accorti di questa sottesa - o evidente - retorica fascista; a supporto e sostegno della nostra opinione “da profani”, riportiamo il giudizio di un attento studioso, Piero Calamandrei espresso in una lettera indirizzata a Pavese: “Questa è grande arte e poesia vera: di fronte a pagine come queste, dove il dolore della vita è filtrato attraverso la contemplazione del ricordo le polemiche sui fini dell’arte e sulle relazioni tra arte e politica non hanno più senso. Gli artisti veri, senza proporselo toccano sempre le ferite della società, l’accento occasionale che prende nel loro tempo l’eterna pena dell’uomo: sono del loro tempo e di tutti i tempi”.
Ancora più analiticamente e con sensibilità Sandro Medici scrive: “Pavese ha vissuto tempi difficili,in mezzo a grandi tempeste popolari,a cui ha reagito con tutti i limiti del su

In queste affermazioni si evince un concetto molto semplice: se lo scrittore non si è dimostrato integralmente coerente nel suo operare, è da ascriversi ad una certa irrisolutezza di fondo che lo caratterizzava e alla problematicità dei tempi in cui viveva: scegliere significava vivere o morire. Infatti, secondo la testimonianza di padre Giovanni Baravalle dell’ordine dei Somaschi, proprio nel novembre del ’43, Pavese, sotto il nome di Carlo De Ambrogio, si era rifugiato presso il Collegio Trevisio di Casale Monferrato per sfuggire ai fascisti. Il medesimo sacerdote ricorda come lo scrittore, alieno da qualsiasi “simpatia fascista”, sia arrivato addirittura a scattare in piedi quando seppe, tramite Radio Londra, dello sbarco alleato in Normandia; circa la famosa frase offensiva presente nel taccuino nei confronti degli antifascisti, secondo il prete, era rivolta contro gli antifascisti dell’ultima ora, cioè coloro i quali, magari, avevano mangiato nella greppia del fascismo, andando volontari nella guerra di Spagna, giudicati impietosamente dal letterato: “porci, lazzaroni, farabutti.”
Certo, a riprova di quanto sopra espresso, bisogna “allegare” l’iscrizione al P.C.I., avvenuta nel 1945 e tutta una serie di poesie (La terra e la morte) e articoli pubblicati su l’Unità [Ritorno all’uomo (20 maggio 1945); Leggere(10 giugno 1945)] e sulle riviste “La Cultura” e “Cultura e realtà”, ispirati all’impegno politico. Tutte queste esperienze e riflessioni sostanzieranno proficuamente l’attività letteraria dello scrittore, il quale darà alle stampe Il compagno (1946) e Prima che il gallo canti. Quest’ultima opera verrà definita dal critico Franco Mollia “dittico politico-sociale” (Franco Mollia, Cesare Pavese, Firenze 1963, p. 69)
Indubbiamente, risalire alla “Verità” assoluta circa questa intricata vicenda non è semplice. Anche se si parla di uno dei pilastri del Neorealismo, sembra proprio di essere precipitati in uno dei più classici drammi di stampo pirandelliano. Ciascuno rivendica un pezzo dell’anima di Pavese: ciascuno ritiene di conoscere l’essenza più intima del pensiero. A volte tale comportamento nasce dalla sincerità, a volte dall’opportunismo.
Tuttavia, per numero e analogia di contenuti, vanno maggiormente tenute in considerazioni quelle definizioni/interpretazioni miranti a scorgere nello scrittore l’adesione all’ideologia di sinistra, seppur tormentata e vissuta in dipendenza del proprio personale modo di intendere “la militanza”.
A tal proposito, riportiamo due giudizi di Italo Calvino e Massimo Mila, profondi conoscitori e frequentatori del Pavese uomo, oltre che dell’intellettuale.
“…marxista non fu mai né s può dire che tentò mai di fare i conti col marxismo; considerava il marxismo non in contraddizione con il tipo di ricerche che lui coltivava; ma il suo pensiero si sviluppo per vie proprie e su terreni in cui quasi non incontrò il marxismo. Schivo e inadatto alla vita politica com’era, dimostrava a volte un senso di disciplina rigorosissimo: domenica 1 agosto venne volontariamente coi compagni di cellula a raccogliere firme contro l’atomica per i caseggiati popolari del nostro quartiere” (Lettera di Italo Calvino a Valentino Gerrantana, 15 settembre 1950)
“…Comunque egli si trovasse nella linea politica che si era scelto con uno di quei suoi atti di volontà bruschi e definitivi, quasi a por termine con un colpo di spada a un nodo di perplessità e di incertezze divenute insostenibili, la politica non teneva un gran posto nella sua vita interiore… Non quanto qualche parola di donna, non quanto la soddisfazione e il tormento del suo lavoro; non quanto il mitico, bruciato paesaggio delle langhe”. (Massimo Mila, l’Unità, 22 ottobre 1952)
Per chiudere questo modesto “viaggio” intorno alla figura complessa e sofferente di Cesare Pavese, non possiamo prescindere dal suo tragico e - nel contempo - timidamente schivo “messaggio” con cui si congedò dalla vita: “Perdono a tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi.” Mai come in questi ultimi vent’anni la memoria dell’intellettuale è stata infangata, depauperata, strumentalizzata. Nelle laconiche, ironiche e dolenti parole d’addio, Pavese sembra quasi profeticamente immaginare che tipo di malevola agitazione avrebbe incontrato il suo estremo gesto e, forse ancor di più, quali interpretazioni balorde e meschine vivisezioni dei suoi scritti e dei suoi atti sarebbero seguite.
Per proiettare un ultimo raggio sottile di luce su questa controversa vicenda, ci sembra chiarificante riportare una sorta di epitaffio, inciso sulla lapide posta dalla gente della sua terra a San Stefano Belbo, in cui si legge la seguente frase dello scrittore: “La mia parte pubblica l’ho fatta – ciò che potevo. Ho lavorato. Ho dato poesia agli uomini. Ho condiviso le pene di molti.”
Il “segreto” di Pavese è tutto qui: poeta, cultore di sogni, immagini e miti ancestrali; uomo di conflitto interiore e sociale; militante per come ha saputo, per come ha dovuto.
-------------------------------------------------------------------------------------------------
Foto:1) Cesare Pavese; 2) Pavese con Carlo Levi; 3) Cesare Pavese, Leone Ginzburg, Franco Antonicelli e Carlo Frassinelli durante una gita nelle Langhe (1932); 4) Pavese con Elio Vittorini; 4) Fernanda Pivano; Pavese.
-------------------------------------------------------------------------------------------------
Pubblicato su La Provincia KR, settimanale di informazione e cultura, Anno XIV n.47 del 02/11/2007
Nessun commento:
Posta un commento