venerdì 3 aprile 2009

Cesare Pavese e il fascismo

“Poche parole amare o brutali, singoli appunti di vita nulla aggiungono alla sua grandezza di scrittore”


E Pavese disse: “Non fate troppi pettegolezzi!”


“La tendenza che si sta affermando ultimamente propone ribaltamenti di vicende arcinote, probabilmente più per il gusto di suscitare sorpresa, incuriosire i lettori, porsi all’attenzione dei media che per autentico dovere di cronaca o spirito di servizio”


di Romano Pesavento

Il revisionismo è di gran moda in quest’ultimo periodo, specie quando s’avvicinano le ricorrenze importanti (per esempio, il centenario della nascita di Cesare Pavese, 9 settembre 1908). Un approccio problematico e critico nei confronti dei fenomeni storico-letterari di sicuro porta allo scandagliamento di tutte le “letture” o risvolti possibili di un dato avvenimento, con effetti comunque positivi sulla conquista della verità più attendibile. Tuttavia, la tendenza che si sta affermando ultimamente propone ribaltamenti di vicende arcinote, probabilmente più per il gusto di suscitare sorpresa, incuriosire i lettori, porsi all’attenzione dei media che per autentico dovere di cronaca o spirito di servizio.
Una questione assai dibattuta riguarda l’ipotetica adesione al fascismo di Cesare Pavese. Immediatamente il cuore di chi è schierato a sinistra subisce un contraccolpo solo alla semplice formulazione di un simile sproposito. Eppure non è con il sentimentalismo che si scioglie un nodo del genere. Non abbiamo avuto la fortuna e l’onore di conoscere un intellettuale di tal levatura, ma certamente quando fu pubblicato, giorno 8 agosto 1990, a sorpresa, sul quotidiano La Stampa il taccuino segreto dello scrittore piemontese, molti nell’ambiente letterario, ebbero modo di contribuire ad una interpretazione attenta dell’evento. Indubbiamente, alcune espressioni, riflessioni o esternazioni di Pavese contenute nel famoso diario indulgono ad una valorizzazione di alcuni aspetti legati al fascismo: “Solo gli antifascisti sanno il pregio del fascismo: tutto ciò che loro manca. E s’è visto che mancano di tutto.(…) Gli intellettuali hanno contato troppo nella vita italiana. Essi sono vili, litigiosi, vanitosi. Bisogna tornare allo Stato, alle personalità politiche superiori a quelle della cultura. Dicono che sarebbe barbarie, ma non è vero. Sarebbe ordine.(…) Il fascismo aveva posto dei problemi, se anche non tutti risolti. Questi salami negano fascismo e problemi e poi dicono che saranno risolti. Ci si vuol coglionare?(…)Una cosa fa rabbia. Gli antifascisti sanno tutto, superano tutto ma quando discutono litigano soltanto… È mostra ben che alla virtù latina o nulla manca o sol la disciplina…Il fascismo è questa disciplina. Gli italiani mugugnano, ma insomma gli fa bene. ” Queste testimonianze pubblicate, grazie all’interessamento dello scrittore Lorenzo Mondo, proiettano una luce inedita sulla figura del poeta, che sbalordì perfino Italo Calvino quando gli venne sottoposto per la prima volta, nel 1962, il manoscritto di cui non volle contribuire alla pubblicazione; eppure ogni gesto per essere pienamente compreso andrebbe analizzato nel contesto storico di riferimento: quando venne scritto il taccuino, vale a dire a cavallo del ‘42 e del’ 43, Pavese attraversava un grande momento di confusione e disorientamento, in quanto fu costretto ad abbandonare l’Einaudi per l’insediamento d’un commissario della Repubblica sociale. Pertanto, anche l’incoerenza e qualche forma di debolezza o ripensamento possono essere giustificate alla luce dei disagi e delle tensioni vissute dal letterato. Eppure se un uomo non si giudica da episodi isolati ma dalla testimonianza di una vita condotta con rigore e impegno, di certo ci sentiamo di condividere alcuni commenti dei più autorevoli scrittori e giornalisti chiamati ad esprimersi circa la querelle: “Chiamarlo fascista è una follia pura. Chi l’ha conosciuto vivo, chi è in grado di evocarne la figura, i gesti, il comportamento, il senso stesso della sua esistenza, sa bene come egli fosse l’esatto contrario di quello che il fascismo è stato. Tutto quanto formava lo spirito del fascismo era assente dalla sua persona.” (Natalia Ginzburg, Il mio Pavese, La Stampa 21/08/1990) “Giudicarlo, scandalizzarsi, “ridimensionarlo”? Se è stato un errore mitizzarne la figura come quella di un grande intellettuale antifascista – concentrando la sua complessità – sarebbe altrettanto parziale e semplificatorio esagerare il significato del suo distacco dalla politica e dei suoi ambigui giudizi su fascismo e nazismo. Tanto più che, nel frattempo, anche la rigidezza e la sicumera della cultura di sinistra (che Pavese a ragione stigmatizza) si sono, quelle sì, ampiamente ridimensionate. I monumenti, sia in positivo sia in negativo, sono sempre falsi, miti esposti all’inevitabile lavoro della demitizzazione. Ma è con questo lavoro che si scopre il loro nocciolo di verità, e comincia a esercitarsi la loro vera efficacia storica. Potrebbe essere anche il caso di Pavese.” (Gianni Vattimo, Pavese, liberiamolo dal suo mito, La Stampa 10/08/1990) “È idiota valutare politicamente una contraddizione che è dello scrittore, di tutti gli scrittori, quella della frattura tra la comunità politica e quella linguistica. Mi stupisce la pochezza di questa critica letteraria.” (cit. Sebastiano Vassalli sta in Nanni Roccobono, Intervista a Sebastiano Vassalli - L’ideologia, il peccato originale di chi scrive, L’Unità 12/08/1990) “Sono sbalordita. Quello che leggo nel taccuino non è lui. Non mi ha mai parlato così. Non lo riconosco. Secondo me le pagine di quel taccuino sono meditazioni per definire meglio un personaggio. Magari il fascista Lucini di La casa in collina. Dirò una cosa di cui sono sempre più convinta: non è possibile, in nessun modo varcare il muro della vita privata della gente. Non sapremo mai cosa pensasse. Al di là delle cattiverie che piovono su di lui.” (cit. Fernanda Pivano sta in Antonella Marrone, Diario parallelo, scoppia la polemica, L’Unità 12/08/1990).
Fra tutte queste “letture” autorevoli e ragionevoli sulla figura di Cesare Pavese, probabilmente la più autentica, la più condivisibile risulta proprio quella di Fernanda Pivano, discepola e frequentatrice assidua dello scrittore piemontese, con estrema lucidità, richiama tutti al silenzio circa quello che può essere la verità più profonda e insondabile dell’animo di Pavese: nessuno potrà mai interpellare il diretto interessato e chiedere ragione di poche righe, privatissime, mai divulgate ufficialmente. Possibile che uno scrittore come il Nostro, benché avesse già manifestato un certo senso di estraneità nei confronti della politica marxista durante gli anni ’50, quando era semplice ed utile ad un intellettuale appoggiare il comunismo, fosse comunque addirittura fascista? Possibile che dietro a tutte le opere e i miti pavesiani ci fosse l’adesione alle idee autoritarie e liberticide del fascismo? Davvero difficile da credere, soprattutto per un uomo che, bene o male, è stato oggetto dell’odioso provvedimento estremo chiamato “confine”. C’è stato addirittura chi avrebbe individuato pagine inneggianti al fascismo nel celeberrimo, celebratissimo, “La luna e i falò”. Mah. Cosa dire? A volte, per suscitare interesse, si sostengono, con tanto vigore e poca documentazione, ipotesi francamente forzate. Si potrebbe aprire un dibattito e girare la questione anche ai nostri lettori. Noi leggendo il libro non ci siamo davvero mai accorti di questa sottesa - o evidente - retorica fascista; a supporto e sostegno della nostra opinione “da profani”, riportiamo il giudizio di un attento studioso, Piero Calamandrei espresso in una lettera indirizzata a Pavese: “Questa è grande arte e poesia vera: di fronte a pagine come queste, dove il dolore della vita è filtrato attraverso la contemplazione del ricordo le polemiche sui fini dell’arte e sulle relazioni tra arte e politica non hanno più senso. Gli artisti veri, senza proporselo toccano sempre le ferite della società, l’accento occasionale che prende nel loro tempo l’eterna pena dell’uomo: sono del loro tempo e di tutti i tempi”.
Ancora più analiticamente e con sensibilità Sandro Medici scrive: “Pavese ha vissuto tempi difficili,in mezzo a grandi tempeste popolari,a cui ha reagito con tutti i limiti del suo essere fuori e del suo volersi sentire dentro. In una contraddizione tra il pensare e l’agire che l’ha martoriato,che ha lasciato irrisolto il suo viaggio politico. Ma da qui a massacrare quel che di più prezioso Pavese ha praticato e anche custodito, quell’appartenere a un grande movimento politico e culturale che ha come d’un tratto ribaltato l’Italia intellettuale, e le cui tracce (nel bene e nel male) arrivano fino ad oggi, c’è tutta l’imbecillità di chi pensa che basta prendersi qualche piccola vendetta postuma per riscrivere la storia.”(Sandro Medici, Quel voltagabbana di Cesare Pavese, storia di una grandinata d’agosto, il Manifesto, 08/09/1990)
In queste affermazioni si evince un concetto molto semplice: se lo scrittore non si è dimostrato integralmente coerente nel suo operare, è da ascriversi ad una certa irrisolutezza di fondo che lo caratterizzava e alla problematicità dei tempi in cui viveva: scegliere significava vivere o morire. Infatti, secondo la testimonianza di padre Giovanni Baravalle dell’ordine dei Somaschi, proprio nel novembre del ’43, Pavese, sotto il nome di Carlo De Ambrogio, si era rifugiato presso il Collegio Trevisio di Casale Monferrato per sfuggire ai fascisti. Il medesimo sacerdote ricorda come lo scrittore, alieno da qualsiasi “simpatia fascista”, sia arrivato addirittura a scattare in piedi quando seppe, tramite Radio Londra, dello sbarco alleato in Normandia; circa la famosa frase offensiva presente nel taccuino nei confronti degli antifascisti, secondo il prete, era rivolta contro gli antifascisti dell’ultima ora, cioè coloro i quali, magari, avevano mangiato nella greppia del fascismo, andando volontari nella guerra di Spagna, giudicati impietosamente dal letterato: “porci, lazzaroni, farabutti.”
Certo, a riprova di quanto sopra espresso, bisogna “allegare” l’iscrizione al P.C.I., avvenuta nel 1945 e tutta una serie di poesie (La terra e la morte) e articoli pubblicati su l’Unità [Ritorno all’uomo (20 maggio 1945); Leggere(10 giugno 1945)] e sulle riviste “La Cultura” e “Cultura e realtà”, ispirati all’impegno politico. Tutte queste esperienze e riflessioni sostanzieranno proficuamente l’attività letteraria dello scrittore, il quale darà alle stampe Il compagno (1946) e Prima che il gallo canti. Quest’ultima opera verrà definita dal critico Franco Mollia “dittico politico-sociale” (Franco Mollia, Cesare Pavese, Firenze 1963, p. 69)
Indubbiamente, risalire alla “Verità” assoluta circa questa intricata vicenda non è semplice. Anche se si parla di uno dei pilastri del Neorealismo, sembra proprio di essere precipitati in uno dei più classici drammi di stampo pirandelliano. Ciascuno rivendica un pezzo dell’anima di Pavese: ciascuno ritiene di conoscere l’essenza più intima del pensiero. A volte tale comportamento nasce dalla sincerità, a volte dall’opportunismo.
Tuttavia, per numero e analogia di contenuti, vanno maggiormente tenute in considerazioni quelle definizioni/interpretazioni miranti a scorgere nello scrittore l’adesione all’ideologia di sinistra, seppur tormentata e vissuta in dipendenza del proprio personale modo di intendere “la militanza”.
A tal proposito, riportiamo due giudizi di Italo Calvino e Massimo Mila, profondi conoscitori e frequentatori del Pavese uomo, oltre che dell’intellettuale.
“…marxista non fu mai né s può dire che tentò mai di fare i conti col marxismo; considerava il marxismo non in contraddizione con il tipo di ricerche che lui coltivava; ma il suo pensiero si sviluppo per vie proprie e su terreni in cui quasi non incontrò il marxismo. Schivo e inadatto alla vita politica com’era, dimostrava a volte un senso di disciplina rigorosissimo: domenica 1 agosto venne volontariamente coi compagni di cellula a raccogliere firme contro l’atomica per i caseggiati popolari del nostro quartiere” (Lettera di Italo Calvino a Valentino Gerrantana, 15 settembre 1950)
“…Comunque egli si trovasse nella linea politica che si era scelto con uno di quei suoi atti di volontà bruschi e definitivi, quasi a por termine con un colpo di spada a un nodo di perplessità e di incertezze divenute insostenibili, la politica non teneva un gran posto nella sua vita interiore… Non quanto qualche parola di donna, non quanto la soddisfazione e il tormento del suo lavoro; non quanto il mitico, bruciato paesaggio delle langhe”. (Massimo Mila, l’Unità, 22 ottobre 1952)
Per chiudere questo modesto “viaggio” intorno alla figura complessa e sofferente di Cesare Pavese, non possiamo prescindere dal suo tragico e - nel contempo - timidamente schivo “messaggio” con cui si congedò dalla vita: “Perdono a tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi.” Mai come in questi ultimi vent’anni la memoria dell’intellettuale è stata infangata, depauperata, strumentalizzata. Nelle laconiche, ironiche e dolenti parole d’addio, Pavese sembra quasi profeticamente immaginare che tipo di malevola agitazione avrebbe incontrato il suo estremo gesto e, forse ancor di più, quali interpretazioni balorde e meschine vivisezioni dei suoi scritti e dei suoi atti sarebbero seguite.
Per proiettare un ultimo raggio sottile di luce su questa controversa vicenda, ci sembra chiarificante riportare una sorta di epitaffio, inciso sulla lapide posta dalla gente della sua terra a San Stefano Belbo, in cui si legge la seguente frase dello scrittore: “La mia parte pubblica l’ho fatta – ciò che potevo. Ho lavorato. Ho dato poesia agli uomini. Ho condiviso le pene di molti.”
Il “segreto” di Pavese è tutto qui: poeta, cultore di sogni, immagini e miti ancestrali; uomo di conflitto interiore e sociale; militante per come ha saputo, per come ha dovuto.
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Foto:1) Cesare Pavese; 2) Pavese con Carlo Levi; 3) Cesare Pavese, Leone Ginzburg, Franco Antonicelli e Carlo Frassinelli durante una gita nelle Langhe (1932); 4) Pavese con Elio Vittorini; 4) Fernanda Pivano; Pavese.
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Pubblicato su La Provincia KR, settimanale di informazione e cultura, Anno XIV n.47 del 02/11/2007

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