mercoledì 21 gennaio 2015

Arte in Italia: la mostra di Segantini a Milano

Le Alpi di Segantini in mostra al Palazzo Reale di Milano: tra divisionismo e simbolismo



Romano Pesavento

La sobrietà delle cose umili, il rapporto primitivo tra l’uomo e la Natura, la luminosità dei paesaggi alpini sono motivi ricorrenti e fonte d’ispirazione per l’estro artistico e l’abilità espressiva di Giovanni Segantini, impareggiabile maestro della tecnica divisoria, in mostra presso il Palazzo Reale di Milano fino allo scorso 18 gennaio.

Seguendo, passo dopo passo, i ritmi ancestrali della vita alpestre e succhiando il nettare della genuinità delle atmosfere rupestri, l’artista ne rappresenta in ogni sua opera la poesia con le sue sfumature romantiche e, a volte, malinconiche delle sue pennellate. Nei volti umili delle madri, dei laboriosi braccianti, contadini, mandriani, si leggono i duri solchi scavati dalle rughe e la fatica giornaliera, ma anche la purezza, l’amore e la dolcezza dei sentimenti che uniscono “tutte le femmine di tutti i sereni animali che avvicinano a Dio”.
Il sincronismo elettivo della tenera unione tra madre e figlio, elemento fondamentale del percorso umano e artistico del pittore, si presenta ricorrente in molti suoi quadri: il dramma della scomparsa prematura della propria madre, all’età di sette anni, ne influenza in modo fatale gran parte della produzione; tale rapporto viene vagheggiato con nostalgia e delicatezza rare; tanto più quando è iconograficamente accostato ai “cuccioli” di altre creature: vitellini con mucche, pulcini con chiocce, agnellini con pecore, specularmente rispecchiano la benevolenza e l’afflato della prima consanguineità.

Le calde sfumature colorate del tramonto e il soave passaggio delle stagioni si imprimono sulle superfici e costellano i quadri di pulviscolo iridescente, rasserenando la mente dell’osservatore. Nell’armonia della quotidianità trova davvero rifugio la bellezza; la grazia delicata di variegate figure e forme bucoliche ci accompagna gradualmente verso un mondo semplice e antico. La spettacolarità imponente dei paesaggi dilata immaginazione e pensiero, che spaziano liberi tra gli echi delle gole delle catene montuose e si espandono all’infinito.  

mercoledì 14 gennaio 2015

Arte in Italia: mostra su March Chagal al Palazzo Reale di Milano

Quella magica pennellata di March Chagall  





Romano Pesavento


Ancora pochi giorni per ammirare l’esposizione su Marc Chagall, “Una retrospettiva 1908 1985”. Ultima data disponibile il primo di febbraio. A sentire gli organizzatori è stato un vero e proprio boom di presenze; sono, infatti, più di 205 mila i visitatori che in questi mesi hanno percorso le sontuose stanze di Palazzo Reale, a Milano, in cui sono custoditi i circa 220 capolavori dell’artista bielorusso. Nessuna altra mostra ha potuto ricostruire in modo così fedele l’intero percorso formativo e umano di Chagall: non a caso ciascuna tela o disegno costituisce un tassello fondamentale nel percorso del pittore e nel linguaggio iconografico del Novecento.  

Il luminoso e remoto tempo dell’infanzia, lo sperdimento dell’innamoramento, l’incanto del Creato, il dolore, il misticismo, il forte legame con la religione ebraica si riversano e si effondono in luminose scie di colore, in turbinii di pennellate alchemiche fino alla ricomposizione totale, coincidente con un’immensa, armonica “Laus vitae”. Le figure, abbaglianti nei loro variegati cromatismi, incorporee come solo i miraggi sanno essere, simili a piume danzano leggere nel cielo sfidando qualsiasi legge di gravità.
Lo sguardo di Chagall non coglie banalmente la Bellezza del mondo; trasforma il mondo in Bellezza. L’esperienza della sofferenza umana, tutt’altro che estranea al pittore, diventa linfa vitale per visioni oniriche altamente suggestive pregnanti di speranza e di Fede; non si tratta di manierismo naif, ma accorato attaccamento appassionato alla vita.
Il blu, il rosso, celebrate cifre distintive, costituiscono l’emblema della passione e del mistero che si rinvengono nell’universo in cui, nonostante tutto, non si è mai soli.  
Ogni sentimento umano viene sapientemente trasfigurato e nobilitato dall’abilità dal pennello dell’artista.
Attraverso il ritmo, la musicalità, le diverse tonalità delle tinte si attua il sincronismo armonioso tra il Bene e il Male, tra l’Amore e l’Odio, tra il Cielo e la Terra. I momenti esiziali della vita s’incrociano con i grandi quesiti esistenziali: i genocidi nazisti; la morte di Bella; la fuga dal proprio paese torturano la creatività dell’artista. Ombreggiature, inedite cupezze e cromatismi cianotici caratterizzano la produzione della Sofferenza.
Fin dai suoi primi esordi, Chagall ha saputo incantare e conquistarsi un ruolo importante nella storia dell’arte contemporanea. E così, quadro dopo quadro, si delinea sempre più nella sua nudità l’uomo semplice ma al tempo stesso sensibile che tra mille difficoltà cerca di comprendere i molteplici eventi dell’esistenza.

Data l’affluenza, non è semplice avvicinarsi ai singoli dipinti. Tanti bambini, ragazzi, gente di ogni età se ne contendono la visione. Sarà forse la voglia di sognare ad occhi aperti, di addentrarsi nel mondo delle favole o di esaminare la tecnica pittorica, ma di sicuro l’atmosfera, gioiosamente surreale, che si respira lungo i corridoi del padiglione ammalia la mente dei visitatori invitandoli alla Fantasia, all’Amore e al Volo.






Pubblicato su la Provincia kr on line il 13/01/2015

martedì 6 gennaio 2015

Recensione Musica - The Magdalene

The Magdalene: i poeti maledetti della y generation



Romano Pesavento


The Magdalene, gruppo eterogeneo per provenienza geografica e sensibilità artistica, composto da Massimiliano Magni - voce e chitarra, Giuseppe Tarascone – batteria, Cristina Del Gaudio – basso, Luca Barreca – chitarra elettrica, costituisce uno delle band emergenti più significative ed interessanti del panorama musicale attuale. 
I riferimenti musicali del quartetto spaziano tra l’indie rock, post-rock, stoner-rock, grunge e alternative rock, sapientemente dosati e commisti ad atmosfere gotico-romantiche venate di elettrica “psichedelia”. 

Il risultato finale di una simile sperimentazione e ricerca artistica è tutt’altro che confuso o scontato; nei tasselli di vita raccontati nelle loro canzoni emergono disperatamente la precarietà, l’isolamento, l’emarginazione, l’aggressività, l’insensatezza della quotidianità nella nostra società. 
Fuori dalle logiche del consumismo estremo, dalla mercificazione delle anime e dal feticismo capitalistico, i personaggi scivolano nel delirio di una coscienza offuscata dal male di vivere; mentre la voce, assai originale del vocalist, l’io narrante, a tratti strascicata, a tratti potentemente graffiante, evoca scenari apocalittici e immagini estreme: la sofferenza da infliggersi o infliggere agli altri diventa l’unico strumento di affermazione dell’individuo in una realtà votata al non sense e all’omologazione. Il dolore rimane sospeso in un limbo in attesa di essere scatenato. 
Gli strumenti, basso, chitarra e batteria, omaggio all’essenzialità del rock primitivo, contrappuntano con vigore e frenesia i molteplici segnali della mente che vacilla sotto impulsi autodistruttivi irrefrenabili. 
I pezzi del primo EP “Un fatale errore” sono molto intensi; il vigore e la versatilità delle chitarre si esprimono al massimo nei riff lenti da “ballatona” rock di Alice, genere Metallica, per intenderci, e nella convulsione spasmodica de L’ubriaco. 
Piccola perla è il brano di chiusura, Un fatale errore, emblematico manifesto di tutti i reietti del pianeta o aspiranti tali: ipnoticamente distorto il suono della chitarra, lancinante fino allo stremo, guida una serratissima cavalcata fino all’epilogo conclusivo.

Il 30 gennaio esce il primo cd completo con tutte le canzoni pensate per la pubblicazione; la gestazione dell’opera è durata parecchi mesi e il risultato conclusivo sarà sicuramente un prodotto di notevole livello, considerando le premesse iniziali. Non lasciatevelo sfuggire.   


Pubblicato su La Provincia kr on line del 02/01/2015

Arte in Italia

 Le più belle mostre in corso? Le abbiamo visitate per voi...




Romano Pesavento

Arte è sinonimo di bello, di creatività, di eleganza, di ribellione… È la voglia di evadere dalla quotidianità o di riscoprirla con gli occhi puri di un neonato, di attraversare con la propria mente emozioni e stati d’animo nascosti nel limbo del proprio inconscio, di plasmare con le proprie mani la suggestione di un momento e di volare al di sopra dei perversi condizionamenti dell’avido e oscuro affarismo. 
Attraversare le epoche,  per scoprire nelle sculture, nei dipinti e nei disegni segnali sottesi, che richiamano la nostra attenzione, educandoci al rispetto della cosa pubblica e di ogni manifestazione della Grazia, è avvincente e necessario.
Quadro dopo quadro, le opere di Picasso a Palazzo Strozzi ci consegnano la compulsivamente folle ricerca dell’artista di prospettive sempre diverse e quasi inconciliabili: periodo neoclassico e surreale. Novità e ingegno qui si fondono e costruiscono percorsi inusitati di rabbiosa icasticità.
Un brivido elettrico attraversa la mente dello spettatore, ogni volta che l’evanescenza, spesso di chiara impronta erotica, di un tenue segno diventa espressione e strumento dell’ingegno bizzarro, con cui Pablo percepisce il mondo, estraendo dalle cose quasi la loro aura e la loro linfa vitale.
La normale leggerezza dei movimenti del Creato, ogni forma di armonia o violenta antitesi, si colgono anche attraverso il sottile, ma deciso, tratto di lapis, che, sul foglio bianco, “incide” schizzi e immagini archetipi e propedeutici alla creazione di Guernica, alfa e omega della guerra e di tutte le guerra. 
Gli spazi allestiti raccontano anche i movimenti e le idee che percorrevano i salotti, le vie e le piazze spagnole nel Novecento e che tanto hanno influenzato il mondo della pittura europea. E così parallelamente ai dipinti di Pablo Picasso si possono ammirare opere di Joan Miró, Salvador Dalí, Juan Gris, Maria Blanchard, Julio González.
Mostra affine alla prima, per intenti iconoclastici e tecniche innovative, si trova alla Galleria Arte Moderna di Palazzo Pitti ed è intitolata Luci sul Novecento: i dipinti presenti di Capogrossi, Baccio Bacci, Fattori, Signorini, De Chirico, Lega, Faraoni, Carlo Levi (Narciso), Reggiani, Giorgio Morandi, Elisabeth Chaplin sono molteplici e graficamente e simbolicamente pregnanti. La selezione di opere in oggetto racchiude in sè un’epoca tormentata dalle guerre e dalle trasformazioni violente della società. 
“Puro semplice e naturale” (esposizione prorogata al 06/01/2015) presso la Galleria degli Uffizi è una raccolta in cui campeggia l'arte fiorentina del Seicento/Settecento. L'illuminazione soft mette in evidenza le delicate e sensibili pennellate di Andrea del Sarto, Santi di Tito, Franciabigio, Bugiardini, Sogliani, Bronzino. Anche le opere scultoree di Della Robbia, Sansovino, Poggini, Giovanni Dell'Opera conferiscono all'insieme un fascino lontano, puro e a tratti romantico.
A Lucca fino al 15 febbraio sono di scena i Macchiaioli: Signorini, Fattori, Lega e il gruppo del Caffè Michelangiolo hanno “dimora” presso il Lu.C.C.A. Center of Contemporary Art. Le opere sono caratterizzate dall’intimismo e dalla pacatezza di un segno grafico morbido che accarezza volti, scene e  panorami toscani rurali, raccontandone la ruvida poesia; siamo distanti dalla sfolgorante lucentezza urbana della Parigi impressionista; ma non per questo la “resa” di archetipi umani universali risulta meno emblematica e rappresentativa.
Alcuni quadri inondano di luce e colori gli occhi di chi li osserva, creando tutti i presupposti per riflessioni esistenziali, a tratti tenere; “La raccolta delle foglie” di Fattori, “Giardino a Settignano” di Signorini, “La portatrice d'acqua” di Tommasi, “Una madre” di Lega sono i dipinti più suggestivi presenti.
“Modigliani et ses amis” sono in esposizione fino al 15 febbraio al Palazzo Blu di Pisa. Attraversando la mostra, ci si ritrova nelle fumose e povere atmosfere di Montmartre alla scoperta dell'uomo comune e dell'affascinante mondo bohémien dell'arte francese. I quadri raffiguranti i personaggi dal collo allungato, dagli occhi enigmatici, i pensosi volti femminili (il ritratto di Dèdie), e gli scandalosi nudi (Nudo sdraiato del 1917), per l’epoca, sono accompagnati alle opere di Picasso, Chagall ed altri pittori suoi amici. Africa e Francia si uniscono in un originale connubio nelle tele di Modì.

Al Palazzo Ducale di Genova – Appartamento del Doge fino all’8 febbraio è allestita una considerevole raccolta di opere (quadri, fotografie, disegni) di Frida Kahlo e Diego Rivera.
L'evento fornisce un'immagine romantica (l'amore per Diego) e al tempo stesso drammatica (l'incidente) della vita di Frida.
Il realismo magico dei due coniugi dispiega sotto lo sguardo dei visitatori un mondo oniricamente variopinto, eppure plasticamente compatto; un mondo in cui amore, sofferenza e morte sono indissolubilmente congiunti, come nel dipinto “L’amoroso abbraccio dell’universo, la terra (Messico), io, Diego e il signor Xoloti)”.
Subito dopo l’ingresso, un filmato in bianco e nero propone uno squarcio inedito della vita coniugale dei due artisti: il legame amoroso e professionale diventa espressione artistica a sua volta. Frida Kahlo e Diego Rivera hanno anticipato alcune performance di Lennon e Yoko Ono.
Alcuni concetti fondamentali del pensiero dei due artisti vengono proposti sui pannelli introduttivi alle opere "Le mie modelle non erano professioniste.
Appartenevano invece alle famiglie più agiate del Messico. Nonostante i cambiamenti e, poi, i danni causati dall'età, nei miei oli sarebbero rimaste per sempre giovani." (Diego Rivera) "Vorrei darti tutto ciò che non hai avuto, e neppure così sapresti quanto è meraviglioso poterti amare." (Frida Kahlo a Diego Rivera). 










Pubblicato sulla La Provincia Kr on line del 31/12/2014

I Viaggi di Gulliver: la Russia

I “giorni bianchi” di Mosca e San Pietroburgo



Romano Pesavento


“Le nostre valigie erano di nuovo ammucchiate sul marciapiede; avevamo molta strada da fare. Ma non importava, la strada è la vita”. Jack Kerouac
“Buon pomeriggio, sono il vostro capitano, siamo appena atterrati nell’aeroporto internazionale di Sheremetyevo a Mosca, la temperatura è di 35 gradi e il sole splende. Vi auguro un piacevole soggiorno nella capitale russa.” Domenica 25 luglio 2010, dopo un volo di circa cinque ore, abbiamo sentito queste parole straordinariamente sorprendenti per una nazione, che non sa che cosa sia il vero caldo. Potenza dei cambiamenti climatici! In realtà per tutta la nostra permanenza la colonnina di mercurio ha segnato valori degni del Nord Arfrica (35°; 38°, 42°); e questo ha comportato una serie di problematiche logistiche (cattivo funzionamento dell’aria condizionata, disagi vari) ma anche una visione inedita della Russia: una terra luminosa e monumentale in tutti i suoi aspetti e manifestazioni. Dopo aver preso i nostri bagagli e passato il vaglio, scrupoloso, della dogana siamo saliti su un taxi malconcio, guidato da un autentico “cosaccoide” in tenuta d’autista.
Burbero e gioviale, per omaggiare la nostra italianità, ha pensato bene di far rimbombare a tutto volume la nota canzone popolare Marina di Rocco Granata all’interno dell’autovettura.
Il viaggio fino al nostro albergo è stato purtroppo molto lungo e il repertorio musicale piuttosto monotono. L’hotel, esteriormente imponente secondo l’estetica sovietica, ci ha accolti accaldati e decisamente sfiniti. La moquette onnipresente  di un colore verdastro, con nostro sommo disappunto, era popolata da miriadi di moscerini festosi e frenetici, in piena attività riproduttiva, secondo quanto ci hanno spiegato nella hall.
Impreparato com’era il personale ad impennate termiche così violente non riusciva a fronteggiare il dilagare di questi innocui, ma fastidiosi, insetti, se non con trasferimenti di stanza relativamente risolutivi. Il giorno dopo siamo giunti nell’altamente evocativa Piazza Rossa, topos polisemantico per tutti quelli che hanno abbracciato l’ideale comunista e anche per tutti coloro che lo hanno accanitamente osteggiato.
Prima però di oltrepassare la Porta della Resurrezione abbiamo fatto una passeggiata nei giardini Alexandrovsky, sul lato occidentale del Cremlino.
Qui lungo il canale decorativo si ritrovano ad affiorare, tra le iridescenze delle fontane, i personaggi delle favole russe e la tomba del milite ignoto, morto per mano dei nazisti a 41 km dalla capitale. Oggi questo posto è diventato parte della tradizione russa: i giovani sposi depongono un mazzo di fiori sul marmo roseo posto di fronte al sepolcro dell’eroico, sconosciuto, caduto. Proprio mentre stavamo per lasciare tale luogo, una guardia con un fazzoletto bianco asciugava le gocce di sudore che grondavano sul viso dei giovani soldati posti fermi davanti all’altare. Dopo aver brevemente visitato la Cappella della Madonna di Iver, entriamo nella piazza più famosa della Russia; qui a terra si trova la struttura in bronzo coi punti cardinali indicante il Chilometro zero, da cui misurano tutte le distanze rispetto alla capitale. Non si può rimanere insensibili davanti a tanta bellezza: la Piazza Rossa, con la sua grandiosa spazialità; il Cremlino, con le sue lucenti cupole dorate; il mausoleo di Lenin, con la sua gravità austera; le tombe dei notabili comunisti da cui si staglia il busto di Stalin. Il momento di estasi si conclude con i Grandi Magazzini di Stato (GUM) nella loro modernità Art déco, la Cattedrale di San Basilio, un tripudio di colori, una fantasmagoria di cupole a forma di cipolla, secondo la tradizione slava, di dimensioni svariate e fantasia sfrenata giusto adiacente al monumento a Minin e Pogiarskij e al Lobnoe mesto (pedana rotonda in pietra ). Di notte lo scenario s’illumina di tante luci variegate, conferendo all’ambiente una seducente atmosfera stregata.
Dopo una breve sosta alla collina dei passeri, ci dirigiamo al monastero di Novodevicij o meglio conosciuto come monastero delle Vergini. La denominazione affonda le sue origini nel passato: forse legata al traffico di schiave dei tartari oppure al fatto che era un complesso monastico femminile. La struttura appare circondata da una cinta muraria, da 12 torri e al suo interno le pareti sono adornate da affreschi di ottima fattura.
Durante il pomeriggio, transito dal ponte sulla Moldova e ingresso al Cremlino. Meticolosamente i nostri occhi fotografano quei luoghi costellati da minuscole chiesette ortodosse, dai tetti a forma di piccole gocce color d’oro e internamente decorate con orli e icone raffiguranti i santi ortodossi; il Palazzo dei Diamanti, struttura del Quattrocento, opera dell’ingegno di due architetti italiani, Ruffo e Solari, e il Gran Palazzo del Cremlino restituiscono per intero la percezione della storicità del luogo. Dopo una bella bistecca georgiana, andiamo a zonzo in una serata piacevole e ricca di vivacità. La mattinata successiva si apre con la sveglia all’alba per percorrere gli 80 km che ci separano dal monastero della Trinità di San Sergiev Posad: il luogo di culto d’incomparabile bellezza e imponenza sbalordisce il visitatore anche per l’estrema religiosità dei fedeli ortodossi. All’ombra delle cupole azzurre stellate, una messa dura tre ore, donne e uomini si prostrano per tutta la durata della funzione, il vestiario è spartano e sobrio, la religiosità piuttosto intensa e partecipativa, con buona pace del materialismo marxista. I pope, figure enigmatiche e inquietanti, celebrano la messa dietro l’iconostasi (parete divisoria intarsiata); il loro abbigliamento, le lunghe, ispide, barbe e i ventri spesso, spaventosamente, prominenti incutono, più che reverenza, sospetto nel turista occidentale. Il pomeriggio, dopo un simile tuffo nel passato di una Russia antica e contadina, ci immergiamo nell’epoca staliniana, il cui frutto più emblematico sono i famosi grattacieli noti come le sette sorelle e la celeberrima metropolitana. Passare di stazione in stazione permette di spaziare tra stili decorativi e narrativi a dir poco epici: l’epopea dei lavoratori e la celebrazione delle figure carismatiche del comunismo, qui, diventano sostanza d’Arte. Mosaici, statue, rosoni, specchi, lampadari sontuosi, marmi pregiati esaltano il trionfo sovietico e l’ideale della modernità in un’URSS che doveva imporsi come modello di riferimento per il mondo intero. Un veloce flash sulla colorata, vivace e bizzarra via pedonale Vecchia Arabat e l’indomani partenza in treno per San Pietroburgo. Il treno superveloce si snoda attraverso paesaggi desolati, costellati da baraccopoli: “l’odore” della miseria si sente da lontano. La via sovietica al capitalismo imboccata da Putin ha messo in ginocchio la periferia e le zone rurali. Ci hanno raccontato che qui anche gli agricoltori, quelli superstiti all’epurazione di Stalin, conoscevano a memoria i versi dei grandi poeti russi, in maniera particolare Puskin, Tolstoj e le gesta dei padri del socialismo reale. La scuola in passato era molto rigorosa e l’esaltazione delle tradizioni e della cultura sovietica era un dovere morale per il giovane patriota comunista. Scesi dal treno e saliti sul pullman, ci siamo ritrovati di colpo immersi nel traffico e nella vitalità della famosa Prospekt Nevskij. San Pietroburgo si  è presentata  da subito al  nostro sguardo come una metropoli straordinariamente civettuola, brillante ed europea. Lo zar Pietro il Grande, l’imperatrice Elisabetta e la zarina Caterina II, grandi stimatori dell’arte e dell’architettura, chiamarono a raccolta gli architetti più ingegnosi del tempo (Bartolomeo Rastrelli, Antonio Rinaldi, Giacomo Trombara, Giacomo Quarenghi ecc.) per impreziosire la loro città come una bomboniera parigina, veneziana o viennese. Così, le strade, spaziose e luminose, i giardini all’italiana disseminati all’esterno degli edifici più significativi e i palazzi sontuosi, vagamente leziosi nell’azzurro, verde e oro (colori preferiti dalla famiglia reale) degli stucchi, conferiscono un’atmosfera aristocratica e sognante, da Gran Soirèe, alla capitale culturale russa. L’indomani un giro panoramico alla scoperta dei luoghi più significativi: il piazzale delle Colonne Rostrate, il lungo Neva con i suoi palazzi, il campo di Marte, la prospettiva Nevskij, la piazza del palazzo con la Colonna Alessandrina, la piazza e Cattedrale di St. Isacco e l’Ammiraglio. Nel pomeriggio, dopo una visita al cimitero monumentali di Tikhvin, l’escursione in battello lungo i canali ci regala un’ulteriore angolazione affascinante della Venezia dell’Est.
Sorge il sole e siamo già per strada per recarci al rinomato museo Ermitage, in cui trovano ospitalità collezioni d’arte di notevole importanza: dalla scuola italiana alla spagnola; dalla francese alla fiamminga. Solo qui è possibile ammirare estasiati un gran numero di opere del Canova. Pomeriggio tra gli ori della fortezza di SS Pietro e Paolo dell’architetto italiano Domenico Trezzini, luogo dove sono sepolti gli zar; all’esterno, presso le mura, c’è sempre qualcuno che fa il bagno nelle acque gelide del mar del Nord o cerca di abbronzarsi leggendo un libro. Il tramonto romantico lascia spazio a una notte scintillante di piccole luci, che rendono l’atmosfera magica e frizzante, mentre i ponti, dai colori cangianti, allo scoccare della mezzanotte, si alzano facendo transitare le grosse navi verso le loro lontane destinazioni.
Il nostro ultimo giorno lo passiamo presso la residenza estiva di Caterina II, a Tsarskoye Selo, il villaggio degli zar, oggi chiamato Pushkin. L’ingresso della magnifica struttura è folgorante:  numerose statue dorate con fattezze neoclassiche ad altezza naturale si susseguono lungo le scalinate marmoree in successione pressoché infinita, tra giochi e fiotti di acqua elevatissimi, scagliati fino al cielo da fontane di tutte le fogge e grandezze. Probabilmente neanche Versailles dispone di una simile, abbagliante, opulenza. Gli interni, riccamente istoriati ed elegantemente arredati, denotano tutta la raffinatezza rococò cui era saputa arrivare la dinastia Romanov. La sala d’ambra costituisce il momento più esaltante della visita: pareti intere, costellate da grani della pietra dura di ogni formato e gradazione color del miele, sembrano proiettare  una soffusa luce dorata sui volti incantati e increduli dei presenti. L’ultima fotografia del nostro soggiorno l’abbiamo voluta scattare ai bambini, che giocavano festosi tra lo zampillare pirotecnico dell’acqua nel parco della residenza di Petrodvorets: l’etichetta di corte cede finalmente il posto alla gioia pura.