lunedì 13 aprile 2009

Crotone&Economia

Mezzogiorno e teorie dello sviluppo economico: ne parliamo con Leone Leonida, docente presso l’Università Queen Mary di Londra


I difetti economici del settore turistico


di Romano Pesavento

Quali percorsi dare allo sviluppo di un area arretrata e come deve porsi un amministratore di fronte a decisioni strategiche. Questa settimana abbiamo voluto affrontare questi ed altri temi di natura economica con il prof. Leone Leonida della Queen Mary, University of London.
D:Sommerso, sviluppo delle aree arretrate e circoli viziosi della povertà sono argomenti importanti, specie nei nostri territori. Ci può dare qualche indicazione?
R:L’idea che muove queste mie brevi riflessioni è che la definizione e lo sviluppo del settore sommerso, delle sue dimensioni e delle sue cause sono problemi che vanno inseriti in un contesto più ampio, sia a livello di teoria economica che geografico. Le riflessioni che seguono hanno esattamente questo obiettivo. Da un lato, tendono ad inquadrare il problema del sommerso e dello sviluppo delle aree arretrate nell’ambito della teoria economica dell’equilibrio economico generale. Da un altro lato, lo sforzo è quello, che oggi risulta molto impopolare, di giustificare un intervento pubblico in infrastrutture mirato alla industrializzazione.
Si cercherà di giustificare una ricetta, dunque, anche se è noto che non conviene mai fornirne alcuna dal momento che il ruolo degli studiosi è quello di provvedere ad analisi, per lasciare le decisioni sul come operare alla sfera prettamente politica.
D:A che punto è oggi il dibattito meridionalista?
R:Il problema dello sviluppo del meridione d’Italia è stato al centro del dibattito politico per lunghi anni. Non si deve infatti dimenticare che il caso italiano è lungamente stato un caso studio tipico di sviluppo dualistico, che contraddiceva il modello secondo il quale si doveva sviluppare una prima parte e poi una seconda in ordine di tempo.
Alla metà degli anni ’90, la questione era ancora oggetto di discussione; oggi problemi che sembrano essere più gravi l’hanno messo parzialmente in disparte. Tuttavia, è mia opinione che una buona parte della battuta di arresto che sta vivendo il sistema economico Italia è dovuto proprio alla ridotta capacità di spesa delle popolazioni meridionali. In altri termini, dal momento che un terzo della popolazione italiana vive in zone disagiate, ha ridotta capacità di spesa e una grossa incertezza sulla propria posizione lavorativa futura, il problema è nazionale, e non locale come qualcuno tenta di far credere nell’attuale dibattito politico.
La letteratura concorda, almeno sulle grandi linee, sul problema che abbiamo di fronte quando si parla di sviluppo meridionale: esiste una storica difficoltà a trovare occupazione da parte di persone che sarebbero disposte a lavorare al livello del salario esistente, cioè una situazione di disoccupazione involontaria. Questo problema, essendo persistente, ne crea altri: tra cui crea occupazione e più in generale attività economica sommersa, cioè, per essere più chiari in nero. Tuttavia, nonostante via sia un sostanziale accordo sul problema da affrontare, non si concorda affatto sui rimedi. Ciò perché si ha una visione nettamente distinta sul come un sistema economico funzioni, e possiamo distinguere tra due grandi filoni teorici: quello che sostiene la possibilità di avere sviluppo senza necessariamente passare per una fase di industrializzazione, e quello che ritiene non sia possibile ottenere sviluppo senza questa fase. Nel rappresentare queste teorie, come vedremo, dovremo focalizzare l’attenzione sia sul travaso di risorse dal settore agricolo a quello industriale, sia sul ruolo che secondo alcuni il sommerso può giocare.
D:Parli di sviluppo senza industrializzazione, puoi darci qualche informazione?
R:L’idea di base di questi studiosi è che il problema è un problema di equilibrio del mercato del lavoro. In altri termini, il lavoro non è trattato in maniera dissimile dagli altri beni, e dal momento che il problema si genera nel mercato del lavoro, in questo mercato si deve trovare soluzione.
Una prima posizione pensa di poter puntare sulle risorse paesaggistiche e naturali. Si deve dire che, in coincidenza con tornate elettorali, viene ricordato a chi studia il Mezzogiorno da anni, che si è in possesso di una vera e propria miniera e cielo aperto, e che si deve puntare ad essere la Florida d’Europa. Una prima considerazione è che la Florida medesima appare come un esempio unico dal momento che praticamente tutte le altre economie hanno seguito strade differenti, tali posizioni fanno sorgere spontanea la seguente domanda: quanti turisti ci vogliono per risolvere il problema della disoccupazione nella sola Calabria? Supponendo che il tasso di disoccupazione sia del 20%, e che la popolazione calabrese sia 2.000.000. Posto che per occupare una persona stabilmente nel settore sono necessari 40 turisti nell’arco dell’anno, necessiterebbero sedici milioni di turisti. Se 40 turisti per ogni addetto sembrano troppi, si riprovi con 10. Il settore turistico ha due difetti: non autorizza certo a parlare di grandi numeri. E si ricordi che equivale ad una scommessa.
Una seconda posizione nota che il mercato del lavoro è in disequilibrio perché i salari reali non rispecchiano la produttività del lavoro: uno dei postulati dell’economia politica è che se il salario è pari alla produttività del lavoro, non vi saranno persone che cercano occupazione senza trovarla. In aggiunta, l’ipotesi è che la libera concorrenza (tra lavoratori o imprese) spinge il salario (ma più in generale i prezzi) all’equilibrio. Questi studiosi notano come nel meridione d’Italia non sia possibile che questo meccanismo operi, dal momento che il salario è unico e stabilito a livello nazionale.
A questo proposito, è stato notato che il salario medio è già più basso di quello settentrionale (di circa il 30%), senza che ciò abbia mai provocato un flusso di capitale dal nord al sud dell’Italia. Il pericolo di queste posizioni è che, a forza di puntare il dito verso il solo mercato del lavoro - cioè verso imprenditori e lavoratori meridionali - poi qualche studioso, sia tentato di dire che il problema risiede nelle caratteristiche culturali delle popolazioni meridionale. In altri termini, se si sostiene che vi sono occasioni di profitto non sfruttate o che le persone sono inclini al posto fisso o alla delinquenza, poi a qualcuno può venire il dubbio che il problema va risolto nel mezzogiorno d’Italia. Se invece si è convinti che questo sia la questione, allora bisognerebbe dimostrarlo scientificamente, piuttosto che asserirlo.
A mio parere è riduttivo pensare che una riduzione del salario possa risolvere il fenomeno della disoccupazione nelle aree in via di sviluppo, e il perché sarà più chiaro in sede di conclusione.
D:Invece in merito allo sviluppo attraverso l’industrializzazione.
R:
L’idea di questi studiosi è che il problema sia di equilibrio generale. Cioè il sistema economico accumula tensioni che si scaricano nel mercato del lavoro. Le soluzioni vanno dunque trovate al di fuori del mercato del lavoro.
Oggi appare molto di moda fare riferimento alle virtù – quasi taumaturgiche – della piccola impresa e dei distretti industriali. Questi osservatori ritengono che il modello della piccola impresa, risultato vincente in altre realtà, possa e debba essere importato nel meridione. In questa direzione sono andate le – scarse, per la verità – risorse pubbliche recentemente destinate al mezzogiorno d’Italia: i patti territoriali, i PIT, i PIM, il GAL e altre strumentazioni simili utili alla ricerca e alla formazione di distretti industriali dei quali, pur non manifestandosi appieno, si trova traccia: si trovano proto-distretti, pseudo-distretti e distretti incipienti. Da notarsi che questa strategia di sviluppo è anche poco costosa dal punto di vista del settore pubblico, visto che i finanziamenti sono spesso presi da istituzioni finanziarie locali. Tra le poche condizioni da realizzare, adeguate condizioni economiche e sindacali – la mitica flessibilità, che tra le altre cose, realizzata per come la conoscono i meridionali, contribuisce non poco a ridurre la loro capacità di spesa.
Per una valutazione non ideologica dei risultati di questi tentativi prima del ‘99, in un bel lavoro la SVIMEZ - stranamente poco famoso - ha calcolato che, a fronte di spese che si possono immaginare (si pensi a quello che si spende per la riqualificazione professionale), nel quinquennio 95-99 sono stati impiegati stabilmente 49 addetti in tutto il meridione d’Italia. Io personalmente aspetto ancora un libro di qualche studioso della materia sull’andamento che hanno avuto i distretti industriali una volta che non si può più svalutare la lira. Deve aggiungersi che, comunque, puntare sui distretti industriali appare una scommessa non meno azzardata di quella del turismo, visto che esperienze di sviluppo basato sul distretto non è che abbondino nel mondo.
Una parte di questi studiosi punta esplicitamente sull’esistenza del settore sommerso: ci sarebbero, ma non si vedono, molte piccole imprese già esistenti sul territorio; si tratta di ispessire queste filiere nascoste. Deve dirsi che in questo caso la scommessa appare molto più forte rispetto alle precedenti: non esiste per definizione una valutazione delle dimensioni del fenomeno; non si capisce fino in fondo perché queste imprese operino in nero, ne se sopravvivrebbero ad una emersione né, infine, come questa emersione debba essere aiutata. Questa non è una posizione nuova nel dibattito meridionalista – il famoso meridionalismo termoelettrico. Accanto alla flessibilità di cui sopra, sembra servano condoni fiscali da primato, il governo ha decisamente intrapreso questa strada; ne vedremo presto gli effetti.
Altri sostengono un interventismo forte. Secondo questi autori è necessario un sostegno mirato (investimenti pubblici in infrastutture) ad alcuni settori nelle aree in via di sviluppo. Vi è stata ovviamente una grande esperienza di fondi pubblici spesi in questa direzione, con il risultato di avere le famose cattedrali nel deserto. Non può non notarsi come, durante quegli anni, anche se molto lentamente, i livelli di ricchezza delle regioni meridionali si stavano effettivamente avvicinando a quelli delle regioni settentrionali. In ogni caso, questa posizione ha il sostegno della teoria economica: gli investimenti portano occupazione, anche se pubblici. E oggi la produzione di occupazione mi sembra più importante della produzione di profitto.
D:A questo punto, occorre fare qualche conclusione magari facendo anche riferimento al punto di vista della teoria economica.
R:Una prima conclusione di massima, in ogni caso, è che “stato o mercato” è puramente e semplicemente uno slogan elettorale, una antitesi inutile e controproducente. Siamo in un sistema di mercato non puro (una economia mista) e bisogna capire cosa il settore pubblico debba fare o non fare. Nessun economista pensa che il mercato debba fare tutto o niente, e nessun economista pensa che lo stato debba fare tutto o niente.
Una seconda conclusione è che le uniche due posizioni che hanno riscontro nella letteratura internazione di economia sono quelle basate sulla riduzione del salario o quella basata sugli investimenti pubblici. Queste due posizioni sono molto stridenti, perché pensano in maniera molto differente a come funziona un sistema economico.
La prima fa riferimento ad un famoso modello di crescita, secondo il quale un sistema integrato come quello italiano, ha un solo punto di equilibrio verso il quale tutte le economie regionali convergono. Questo punto di equilibrio sarebbe stabile, e quindi, al netto di shocks esterni, le economie convergono verso un unico punto comune di equilibrio. Le economie che non dovessero mostrare questo processo di convergenza hanno qualcosa - ad esempio, una legge che fissi il salario - che le blocca nel loro processo di convergenza. Questo qualcosa va rimosso, in modo che il mercato riprenda a funzionare correttamente. Questi sono modelli di crescita che ipotizzano mercati ben stabilizzati ed in grado di trasmettere in maniera adeguata le informazioni.
La seconda ritiene, in linea con una parte della teoria economica dello sviluppo, che siano possibili situazioni di equilibri multipli. Cioè, un sistema economico può avere più di un punto di equilibrio, e la storia decide verso quale un sistema economico tende. Questo implica che non necessariamente tutte le economie convergono verso un medesimo punto di equilibrio. Per fare un esempio, una situazione di equilibrio unico e stabile può essere rappresentato da una ciotola. Se lanciamo 20 palline (le regioni italiane) nella ciotola, queste, prima o poi, raggiungeranno tutte il fondo, a meno di impedimenti. Quindi levare gli impedimenti nella ciotola aiuta le economie a raggiungere il fondo. Una situazione di equilibri multipli è invece una situazione in cui vi sono due ciotole, una vicino all’altra. Se lanciamo dall’alto le palline, alcune finiranno in una e alcune nell’altra, e non serve fare in modo che le palline possano muoversi, per farle andare nello stesso equilibrio.
Oggi mi sembra necessario capire se il sistema economico italiano sia caratterizzato da equilibri multipli o meno. Io ho provato a farlo, e mi pare che siamo in una situazione di equilibri multipli. In particolare, le politiche pubbliche degli anni ‘60 e ‘70 hanno creato due sistemi a diverso potenziale di crescita. Secondo me, non servirà ridurre il salario, ma piuttosto studiare il modo in cui spingere le economie nella ciotola povera possano raggiungere quelle industrializzate nella ciotola ricca. E dovremmo farlo in fretta, perché gli studi indicano che le due ciotole si stanno allontanando.
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Pubblicato su La Provincia KR, settimanale di informazione e cultura, Anno XIII n. 09 del 04/03/2006

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