giovedì 2 aprile 2009

I viaggiatori a Crotone 12

“Ha strade strette e cattive e soltanto poche case graziose”


Justus Tommasini, geografo e matematico tedesco, alle prese con la decadenza di Cotrone


“Nei tempi antichi c’era il proverbio: Aliae urbes, si ad Crotonem conferentur, vanae nihilque sunt (Le altre città sono niente paragonate a Kroton). Anche oggi questo detto è valido: però esattamente al contrario, poiché la città è molto povera.”



di Romano Pesavento

L’autore che questa settimana commentiamo è di origine tedesca e si chiama Justus Tommasini. Alcuni studiosi tengono a sottolineare che tale nome è il pseudonimo dell'austriaco Johann Heinrich Westphalen. Una cosa è certamente sicura: il nostro autore nacque a Schwerin nel 1774 e ivi morì nel 1831. In vita si occupò di geografia e matematica. Correva l’anno 1825 quando il Tommasini decise di fare un viaggio nel Sud d’Italia alla scoperta di quei luoghi così classici e al tempo stesso selvaggi. Da tale avventura ne uscì un libro intitolato “Spatziergang durch Kalabrien und Apulien”, pubblicato dalla Costanza a Waills nel 1828. Partito da Napoli, giunse a Crotone il 5 Ottobre dove vi rimase per poco più di due giorni. Probabilmente il nostro visitatore è colpito subito dall’arretratezza socio-ecnomica della nostra città, infatti, leggete le sue considerazioni: “Nei tempi antichi c’era il proverbio: Aliae urbes, si ad Crotonem conferentur, vanae nihilque sunt (Le altre città sono niente paragonate a Kroton). Anche oggi questo detto è valido: però esattamente al contrario, poiché la città è molto povera.”
Occorre a questo punto fare una breve riflessione. Certamente se anche Dante fosse passato da Crotone, non avrebbe certo esitato a inserire qualche personaggio cittadino, del passato o nostro contemporaneo, nel canto XXV: quello dei ladri, per chi non lo ricordasse.
Per quale motivo affermiamo ciò? La risposta è semplice: basta guadarci intorno e scoprire come molti soldi pubblici oggi vengono intascati da soggetti privi di competenza e di scrupoli, arrecando danni irreparabili alla collettività. Da qui si evince lo stato di perenne scompenso economico e di degrado della provincia (pare che l’unica speranza di crescita sia rappresentata dal tanto discusso Euoparadiso o dallo smaltimento di ciclopiche e torreggianti tonnellate di rifiuti napoletani, ai quali, con generosità e caloroso entusiasmo daremo “asilo politico”, onde fertilizzare meglio le nostre terre, con consequenziale decollo dell’agricoltura, e conferire preziosi tocchi di pittoresca novità alla bellezza dei nostri luoghi per rilanciare il turismo). Per non parlare dell’alto tasso di tumori rilevato oggi in città: nessuna famiglia crotonese, sfortunatamente, ignora questa sciagura.
Ritorniamo, ora, al nostro scrittore. Nel passo che segue ritroviamo le solite e scarne descrizioni di un borgo abbandonato a se stesso e privo di attrattive. Allora come ora: “Finalmente si incontrano dei giardini e si vede Cotrone molto vicina. All’inizio c’è una moltitudine di basse case, per lo più botteghe; poi si entra nella città fortificata da mura e cinta da un fossato. Ha strade strette e cattive e soltanto poche case graziose. La cittadina è costruita su una bassa collina prominente sul mare, sul punto più alto della quale spicca la cittadella. Presso la punta sporgente in mare c’è il porto, costruito e protetto con moli, che non è molto importante. Due o tre brigantini, qualche imbarcazione più piccola e qualche barca è tutto ciò che vidi.”
Anche qui l’incontro tra lo scrittore e la realtà crotonese suscita meraviglia e reciproche diffidenze: il comandante non si capacità dell’intento meramente di studio e approfondimento culturale del Tommasini, scambiato invece per una spia o un massone. Quest’ultimo, invece, si vede privato dello status di cittadino libero perché spogliato del proprio passaporto. L’immagine della locandiera, poi, non allieta certo la generale atmosfera di decadenza e sconforto.
“Appena varcai la porta, quattro gendarmi mi fermarono chiedendomi il passaporto. Dopo averglielo mostrato, entrai in una osteria, dove fui subito avvicinato dal comandante dei gendarmi. Anche lui volle vedere il passaporto e mi domandò se avessi intenzione di rimanere a Crotone anche l’indomani. Gli dissi che il giorno dopo sarei voluto andare prima di tutto alle rovine di Capo Colonna, per poi riprendere subito il viaggio, ammesso che non si fosse fatto troppo tardi. Egli prese con sé i documenti e promise di restituirmeli la mattina successiva a buon’ora. Mi dovetti separare così dal mio passaporto, cosa che, data la mia devozione, fu veramente spiacevole. Poi mi chiese lo scopo del mio viaggio e si meravigliò del fatto che io mi sottoponessi a una tale fatica senza veramente altra intenzione che quella del puro divertimento. Già altri mi avevano detto qualcosa di simile, per cui anch’egli alluse molto decisamente al fatto che io dovevo essere di certo una spia del governo. Protestai violentemente contro tale insinuazione. Tuttavia, le mie ragioni non produssero in lui nessun effetto. Infine, mi condusse nella misera taverna e mi raccomandò nel miglior modo alla locandiera, che aveva un solo occhio.(…) Il comandante mi accompagnò fino alla locanda e si intrattenne con me per un po’. (…) L’edizione piccola e carina del Decamerone che tu mi hai regalato a Roma, e che mi ha accompagnato in questo viaggio, giaceva sul tavolo. Il gendarme che forse credeva di trovare gli statuti di una loggia massonica afferrò il libro e lo sfogliò; solo così infatti poteva conoscerne il vero contenuto. Le domande che mi rivolsero dopo, però, mi convinsero che egli, sebbene nativo di Salerno, un paese abbastanza civilizzato, non avesse nessuna cognizione di Boccaccio, perché voleva sapere, tra l’altro, se l’autore fosse ancora i vita.”
Prima di passare alle conclusioni, ci sia consentita un’altra considerazione: non solo la qualità umana e morale del ceto “dominante nostrano” spesso difetta già di suo, ma, frequentemente, abbiamo la fortuna di diventare meta di geni o super cervelli, spediti dal governo centrale a gestire ed amministrare il nostro territorio, con risultati a metà strada tra il comico ed il drammatico, grotteschi, per dirla tutta.
“La passeggiata verso Capo Colonna è stata più piacevole di quanto mi aspettassi e sono ritornato solo il pomeriggio tardi. Appena fuori dalla città sorge il promontorio, una pianura un po’ in alto, a punta e a picco sul mare. La strada costeggia quasi sempre la spiaggia. La pianura, a prescindere da qualche casino e qualche torre, è completamente libera e incolta, delimitate da basse montagne desolate di un colore più brutto del grigio e offre soltanto una veduta un po’ bella di Crotone e dei monti lontani. Del famoso tempio di Giunone è rimasta una solitaria colonna dorica scanalata, sormontata da una lastra quadrangolare, su delle fondamenta di dieci strati parallelepipedi sovrapposti. Le rimanenti colonne sono scomparse e sembra che il mare ne abbia distrutto buona parte. I vecchi della zona ricordano ancora che un tempo la terraferma si estendeva più lontano, ma non sanno dire nulla delle parecchie colonna e generalmente, com’è normale, sono molto in disaccordo tra loro. Verso l’interno sono dissotterrate e chiaramente riconoscibili quelle che sono le probabili fondamenta della cella del tempio. Sono scavate nella roccia, ma tanto profonde che devono essere state necessarie almeno altrettante dieci file di pilastri per metterle a livello della base della colonna. Queste pietre sono state adoperate probabilmente in epoca posteriore per la costruzione di un solo edificio nella stessa Cotrone. In passato un muro circondava il tempio girandogli attorno a una distanza considerevole. Due lati, quelli rivolti verso il mare, sono completamente distrutti; gli altri due invece si riconosco ancora molto bene. Sotto si vedono parallelepipedi su un’opera muraria con tracce di un rivestimento reticolare. Questo è tutto ciò che è rimasto dello splendore dell’antica Kroton e sono altrettanto miseri i frammenti che ci sono pervenuti dei sistemi dei famosi filosofi che insegnarono stimolati da Pitagora: tuttavia, solo a questo la città deve la sua fama. Costituisse ciò almeno la rovina dei nostri filosofi pitagorici, i cosiddetti filosofi della natura, che proprio nella completa assurdità, in particolare, fanno spesso osservazioni molto acute.”
Infine, l’ultimo passo proposto ci aiuta ancora una volta a trarre la morale della storia: ogni volta che il buon Dio ci mette a disposizione qualcosa di vantaggioso ci adoperiamo per distruggerlo. Il caso di Pitagora e del tempio di Hera Lacinia rappresentano, purtroppo, solo una tappa di un percorso tortuoso verso un futuro incerto.
Pubblicato su La Provincia KR, settimanale di informazione e cultura, Anno XIII n. 40 del 13/10/2006

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