giovedì 2 aprile 2009

I viaggiatori a Crotone 7



Cloudie Dundas: il luogotenente inglese che cantò le bellezze di Cotrone


di Romano Pesavento
Questa settimana presento al gentile lettore le memorie di uno scrittore non molto conosciuto al pubblico, ma che seppe ben fotografare la realtà crotonese; stiamo parlando di Claude Dundas.
A questo punto, molti si domanderanno, probabilmente, stupiti: Chi era costui? In merito a ciò, dobbiamo costatare, effettivamente, che le uniche notizie bibliografiche ci provengono dalla sua stessa presentazione al visconte di Santugo, all’interno della sua opera “I briganti nel 1806 ovvero una spedizione nelle Calabrie. Memorie di un aiutante di campo inglese”, che così scriveva: “Io mi presentai come il luogotenente Claude Dundas del 62 reggimento di S.M. Britannica, ed aiutante di campo del generale sir Giovanni Stuart..”. Certo, l’importanza del racconto di Dundas affiora anche dalle prime righe dell’introduzione all’opera fatta da Angelo Sferrazza: “Se il luogotenente Claude Dundas, comandante del corpo inglese inviato ad aiutare i Borboni contro i Bonaparte tornasse ora in Calabria, forse stenterebbe a riconoscere i luoghi, ma potrebbe aspirare a diventare un buon inviato speciale della BBC”. Infatti, è proprio da queste prime battute che scopriamo l’approccio narrativo utilizzato dal luogotenente inglese.
Certamente, lo stile romanzato con cui descrive i luoghi e gli avvenimenti ci conducono a scoprire la nostra terra, fatta di tradizioni popolari e riti. Tutto si svolge, quindi, sotto lo sguardo di Dundas, per nulla infastidito dalle usanze popolari, anzi alcune volte addirittura partecipe, anche quando si trova coinvolto in un orribile tragedia come quella che mi appresto a riportarvi: “Nel por piede in un paesello alle falde delle colline che ergonsi fra Policastro e Cotrone, trovai ch’era appunto stato celebrato un matrimonio, e tutti gli abitanti erano in festa per quell’avvenimento. Tavole rustiche erano imbandite di latte, riso, cialdoni, frutta sotto gli aranci, e quei buoni villici salutaronmi cortesemente invitandomi a sostare un poco e prender parte con essi alla gloria nuziale. Io smontai e fui condotto da uno stormo di villici al posto d’onore accanto al parrocchiano, frate canuto e venerabile di San Francesco, che aveva testè congiunto la giovane coppia. Dopo assaggiati alcuni frutti e vuotato un bicchier di vino, assistemmo alle danze nuziali al suono del flauto, della zampogna e del tamburello. Lo sposo, bello e robusto boscaiolo, con un giubboncello scarlatto e calzoni verdi fregiati alle ginocchia di nastri come il suo capello conico, ballava allegramente con la sposa, non avvisando che un feroce rivale lo stava spiando di mezzo agli aranci. Come suole, la sposa era oggetto dell’attenzione generale, ella era assai bella di forme, ed aveva un’espressione serena e modesta che la rendeva vieppiù piacente. Una candida pezzuola riquadrata pendeva dalla sua testa coprendo a mezzo le sue treccie sorrette da una freccia d’oro. Un par di grandi e neri occhi abbassati, una piccola bocca vermiglia ed un bel seno ricolmo integravano le sue attrattive. I vecchi battevano le mani, mentre i giovani cantavano in onore di essa al suono degl’istrumenti rusticani.
Il ballo era la tarantella nazionale – che richiede una grandissima agilità vieppiù rapidi più la danza si accosta al termine. Tutt’ad un tratto nel mentre la musica era più fragorosa e più vivo il tripudio dei danzanti, s’udì lo scoppio d’una carabina dall’attiguo aranceto, e la povera sposa caddè morta appiè del marito.”
La festa del matrimonio vissuto come momento di gioia dall’intera collettività, la sposa oggetto di curiosità, la tarantella tradizionale suonata in onore dei festeggiamenti sono i simboli più concreti del nostro patrimonio culturale. Infine, l’ultima scena: l’omicidio della sposa. Gelosia, crudeltà ma anche sentimento; L’orrore e un mal inteso senso dell’onore, tipico del nostro territorio, si fondono in un affresco “umano” di rara potenza drammatica.
Anche Dumas, come altri scrittori commossi dal fascino decadente di Crotone, dipinge con triti colpi di pennello quello che è stato e quello è la città di Pitagora.
“Scendendo la catena di montagne che termina nel capo della Ruova io vidi davanti a me la vasta distesa dell’Adriatico fino al golfo di Taranto vagamente illuminato dalla vivida luce del tramonto. Il disco ardente del sole abbassandosi dietro le colline ch’io mi avevo lasciato addietro mandava un addio all’antica città achea, tingendo d’oro le onde che frangonsi al capo della Colonna, - l’antico promontorio Lacinio, celebre una volta pel tempio magnifico di Giunone distrutto dai soldati di Annibale. La scuola di Pitagora – la gloria della magna Grecia - era scomparsa con la potenza di Cotrone, e del tempio maestoso di Giunone Lucinia non rimaneva che una colonna solitaria per attestare la grandezza dell’edifizio nella sua gloria, quando Greci, Ausonii e Siciliani piegavano il capo davanti al suo altare pagano. Il tempio altro non è ora che un mucchio di pietre, e le sponde del classico Neato hanno perduto la loro verdeggiante bellezza e il fogliame ombroso che le vestiva a’ tempi di Teocrito.”
Il passo che segue ci riporta all’incantevole bellezza della natura e dei paesaggi. Certamente il luogotenente avrebbe potuto divenire un valido promoter turistico; anche se le conclusioni, come possiamo verificare dal testo, sono, come di consueto, deprimenti.
“Mentre seguitava i tortuosi serpeggiamenti della strada che mena a Cotrone, la sera avea ceduto il luogo alla notte, ma qual notte!... più bella assai del giorno. L’aria era tutta odorata delle fragranze degli aranci, limoni, ulivi; il cielo era tutto trapunto di lucentissime stelle, e la luna alzavasi lentamente dalla marina, tingendo di liquido argento le acque, gli alberi e la terra.
La moderna Cotrone non è che un villaggio dominato dal castello o cittadella. Ogni vestigio della sua antica grandezza è scomparso, tranne la colonna del Capo, e nulla più sopravvanza di quella magnifica città, dalle cui porte il gigantesco Milone condusse cento mila uomini alla battaglia.
I tempi superbi, su cui sventolava la bandiera di Giustiniano, le mura massicce e ben munite, le porte di bronzo assalite indarno dalle coorti di Totila il Goto, caddero in polvere da lungo tempo, e poche casupole segnano il sito ove sorgeva l’antica Cotrone di Miscello.”
Da soldato animato da forte amor patrio e da coraggio militare ostile ad ogni forma di viltà, Dumas osserva quanto sia squallido e nel contempo pura espressione di vigliaccheria il comportamento di chi, proprio perché alto graduato dovrebbe non solo coordinare e dirigere le forze in campo ma anche fungere da esempio, da modello di comportamento, quando abbandona il proprio ruolo guida per pura comodità. Qualcuno dei nostri lettori potrebbe chiedersi la motivazione o il senso di questo testo rispetto a quanto abbiamo più volte rilevato sui mali della nostra città. E’ preso detto: ora come allora, il principio ispiratore di chi esercita un potere, di qualunque genere ed entità, è trarre il maggiore utile possibile dal proprio ruolo ed “abbandonare la nave”, il più presto possibile, quando le cose non scorrono più come si vorrebbe.“La cittadella costruita da Carlo V, era occupata da una guarnigione francese ed era bloccata da una brigata inglese sotto il comando del colonnello Macleod e dal corpofranco calabrese di Santugo dalla parte di terra, mentre la fregata Anfione con una piccola squadra di cannoniere siciliane intercettava ogni comunicazione col mare. I francesi erano già ridotti a dure strette al mio arrivo, ed aspettatasi di giorno in giorno la loro resa. Il generale Regnier, che dopo la battaglia i Maida avea tentato mantenersi fra la cittadella e Catanzaro, fece subitamente una ritirata precipitosa verso Taranto abbandonando al loro destino i suoi soldati chiusi in Cotrone.”

Pubblicato su La Provincia KR, settimanale di informazione e cultura, Anno XIII n. 35 del 08/09/2006

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