lunedì 16 dicembre 2013

L'intervista - Parla Santiago A.Canton, direttore della Fondazione Robert Kennedy ed ex consulente di Jimmy Carter.

L’Italia apra i CIE alle ONG per i diritti umani

“Un paese che non consente ai giornalisti di riferire sulla sua condotta, è un paese che sta cercando di nascondere le sue azioni.”


di Romano Pesavento

I flussi migratori stanno ultimamente diventando uno dei principali drammi della comunità globale. I fatti di Lampedusa e Crotone delineano un quadro estremamente preoccupante dell’emergenza nazionale relativa al fenomeno in atto. Enormi spostamenti di massa (anche donne e bambini) avvengono quotidianamente tra le due sponde del mare: tutte persone alla ricerca di una speranza di vita migliore. Cosa li attende?

In questa intervista abbiamo voluto affrontare il problema dell’immigrazione con un personaggio d’eccezione, Santiago A. Cantone, direttore del Robert F. Kennedy Partners for Human Rights. Dalla sua biografia emergono importanti incarichi e riconoscimenti per l’impegno speso in campo umanitario. Cantone ha rivestito il ruolo di segretario esecutivo della Commissione Inter-Americana sui Diritti Umani, relatore speciale per la libertà di espressione nel sistema americano Inter, Direttore per l'America Latina ed i Caraibi per l'Istituto Nazionale Democratico per gli Affari Internazionali (NDI), un istituto di sviluppo democratico con sede a Washington DC. È stato anche assistente politico del presidente Carter in programmi di sviluppo democratico in paesi in America Latina.
Nel 2005 si è aggiudicato il Gran Premio Chapultepec per i suoi contributi alla promozione, lo sviluppo, il rafforzamento. e la difesa dei principi di libertà di espressione in tutto il continente americano.
Ritiene che lo Stato italiano stia fronteggiando efficacemente l’emergenza umanitaria dei profughi provenienti dai territori martoriati dalla guerra civile e dalla povertà?
La migrazione è una delle sfide più importanti che tutti noi abbiamo, come società globale. Con diverse centinaia di milioni di persone che vivono fuori del loro paese di origine, e molti di loro alla ricerca di una vita migliore senza violenza, la povertà , la discriminazione; siamo obbligati a trovare soluzioni quando arrivano sulle nostre coste.
Sono molto preoccupato per quello che sta accadendo nelle acque della Sicilia. Gli italiani sono sempre stati molto accoglienti e compassionevoli persone, e il calore e il dolore che questa nazione ha mostrato quando più di 200 persone hanno perso la vita a Lampedusa poche settimane fa è una ulteriore dimostrazione di questo.
Se l'Italia è responsabile, lo è anche il resto d'Europa e la comunità internazionale. La comunità europea nel suo complesso deve stabilire politiche comuni per accogliere i migranti che desiderano venire qui, e, soprattutto, assumersi la responsabilità di coloro che rischiano la vita per venire qui. Spero che i paesi europei decideranno di istituire un corridoio umanitario per dare sostegno e sicurezza ai rifugiati.
Molti profughi, una volta giunti a Lampedusa, vengono “smistati” nei vari centri di accoglienza e Cie, in cui aspettano la definizione del loro destino. Non sempre queste strutture si sono rivelate efficienti ed appropriate. A Crotone, a seguito di una rivolta per la morte di un giovane marocchino, nel periodo di ferragosto è stato chiuso il tanto discusso Cie. Secondo lei quali possono essere le soluzioni per una corretta gestione territoriale del fenomeno immigratorio?
Non ho mai visitato un CIE personalmente, ma ho letto molto su di essi, tra cui quello che il relatore delle Nazioni Unite sui diritti umani dei migranti ha scritto nel mese di ottobre 2012, dopo aver visitato il CIE italiano: il relatore ha sottolineato come sia il governo italiano e la Guardia Costiera siano stati ampiamente collaborativi, ma ha anche raccomandato che l'Italia permetta alle ONG umanitarie di visitare i CIE, e cambi il suo accordo bilaterale con la Libia, dal momento che la nazione in questione rappresenta una grave minaccia per la sicurezza dei migranti .
Mi auguro che la Comunità europea aiuterà l'Italia non solo con il sostegno finanziario, ma anche con la creazione di politiche comuni in materia di diritti umani. Nessuno si dovrebbe trovare a rischiare la propria vita per una possibilità di pace e di prosperità .
Essi devono essere trattati con dignità e, solo come ultima istanza, dovrebbero essere tenuti in strutture speciali, non centri di detenzione, fino a quando il loro status giuridico non è determinato dalle autorità, nel rispetto tassativo delle norme internazionali sui diritti umani. Non dobbiamo dimenticare che questi sono individui in fuga da condizioni di violenza e povertà. Tenerli in prigione per un lungo periodo di tempo, è una violazione dei loro diritti umani .
Assistenza, accoglienza e integrazione sono sempre più messi in seria discussione da un elevato numero di tristi episodi che hanno portato addirittura alla morte di alcuni profughi. Desolazione, abbandono e depressione colpiscono i poveri immigrati una volta usciti dai Cara alla ricerca di un lavoro o di un possibile rifugio per trascorrere la nottata. Crotone, come molte altre realtà del Sud Italia,  è una zona estremamente povera. In tale contesto, nel corso degli anni il fenomeno immigratorio è andato ad alimentare la prostituzione e il lavoro nero senza che le autorità locali siano riuscite ad intervenire. Qual è la sua opinione in merito?  

La Calabria è stata una delle prime regioni italiane in cui abbiamo stabilito un programma di educazione ai diritti umani del RFK Center, RFK Speak Truth To Power. Il nostro presidente del RFK Center, Kerry Kennedy, ha visitato più volte tale regione, e dice sempre che calabresi, così come siciliani e napoletani, sono tra le persone più accoglienti, compassionevoli e generose. Il governo ha la responsabilità su tutto il territorio nazionale non solo di agire per contenere la criminalità, ma anche per creare opportunità e reti di sicurezza per chi è nel bisogno, anche per coloro i quali semplicemente arrivano sulle sue coste.
Generalmente, la Prefettura non autorizza la stampa ad entrare nei centri Cara. Ricordiamo la recente denuncia di un giornalista de la Repubblica, che segnalava (19 agosto 2013) la mancata autorizzazione ad accedere alla struttura di Crotone. Come commenta  tale stato di cose? 
Una delle cose più efficaci che possiamo fare è educare le persone sui diritti umani; e anche permettere ai giornalisti di utilizzare gli strumenti giusti per parlare di diritti umani. Un paese che non consente ai giornalisti di riferire sulla sua condotta, è un paese che sta cercando di nascondere le sue azioni. L'Italia dovrebbe assolutamente iniziare ad ammettere i giornalisti nei Centri di accoglienza per i richiedenti asilo.


Interview with Santiago Canton, Director of RFK Partners for Human Rights


Do you think that Italy is properly addressing the humanitarian crisis of refugees from countries struck by civil war and poverty?
Migration is one of the most important challenges we all have as a global society.  With several hundred million people living outside their country of origin, and many of them searching for a better life free from violence, poverty, and discrimination, we are obligated to find solutions when they arrive on our shores.
I’m very concerned about what is currently happening in the waters around Sicily. Italians have always been a very welcoming and compassionate people, and the warmth and sorrow that this nation showed when more than 200 people lost their lives in Lampedusa few weeks ago is a further demonstration of that.
While Italy is responsible, so is the rest of Europe and the international community. The European community as a whole must establish common policies to welcome migrants who wish to come here, and more importantly, take responsibility for those who risk their lives to come here. I hope European countries will decide to establish a humanitarian corridor to give support and safety to refugees.
As soon as they get to Lampedusa, many refugees are “sorted out” in CIEs (Identification and Expulsion Centers) and reception centers, where they wait for official decisions about their future. Unfortunately these structures are not often efficient and suitable. For instance, after the revolt for the death of a young Moroccan immigrant, the controversial CIE in Crotone was closed in August. In your view, what are the solutions for an appropriate handling of the migrant issue at local level?

I have never visited a CIE personally, but I have read a lot about them, including what the UN Rapporteur on Human Rights of Migrants wrote in October 2012 after visiting the Italian CIE: the Rapporteur underlined how helpful the Italian Government and the Coast Guard have been, but he also recommended that Italy allow Humanitarian NGOs to visit CIEs, and change its Bilateral Agreement with Libya, since that nation that poses a serious threat to migrants’ safety.
I hope that the European Community will help Italy not only with funding support, but also with establishing shared policies regarding human rights. No one should have to risk his or her life for a chance at peace and prosperity. 
They should be treated with dignity and, only as a last resort, should be kept in special facilities, not detention centers, until their legal status is determined by the authorities, in strict observation of international human rights standards.  We should not forget that these are individuals escaping conditions of violence and poverty. To keep them in prisons for a long period of time is a violation of their human rights.
Aid, reception, and integration policies are seriously jeopardized by a high number of accidents that sometimes provoke casualties among refugees. Distress, depression and weakness affect unfortunate migrants as soon as they are out of CARAs (Asylum Seekers Reception Centres) looking for a job or a shelter from the night. Like many Southern towns, Crotone is extremely poor. The migrant issue has made the situation worse, fuelling over the years prostitution and black labour market, problems that have not been effectively tackled by local government. What do you think about that?

Calabria was one of the first Italian Regions where we established the RFK Center’s human rights education program, RFK Speak Truth to Power. Our RFK Center President, Kerry Kennedy, has visited several times, and always says that Calabrians, as well as Sicilians and Neapolitans, are among the most welcoming, compassion, and generous people. As in all cities, the government has a responsibility not just to act to contain crime, but also to create opportunities and safety nets for those in need, even those who simply arrive at their shores. 



Pubblicato sulla rivista la ProvinciaKr n.3 – Novembre 2013





domenica 17 novembre 2013

I viaggi di Gulliver: diario dall'Uzbekistan

Samarcanda 
Sulla via della seta: Khiva, Bukara, Deserto Rosso


di Romano Pesavento




Ogni volta che si affronta un viaggio penso a quale affascinante mondo si possa prospettare e dischiudere davanti agli occhi del visitatore. Soprattutto quando la meta è lontana e non tanto frequentata dai circuiti del turismo di massa. La globalizzazione ha creato tanti stereotipi a cui il consumismo si è, ulteriormente, ispirato per condizionare i gusti e omologare tendenze e scelte che, inevitabilmente, finiscono per isterilire la  fantasia delle persone. Per questo oggi più che mai l’esperienza del viaggio deve possedere risvolti e significati tali da stimolare la curiosità e rendere autenticamente vivo l’interesse della scoperta culturale.
L’Uzbekistan è un paese poco conosciuto e citarlo all’orecchie dei più significa, nella maggior parte dei casi, raccogliere una serie di espressioni sbalordite o sguardi attoniti/perplessi. Samarcanda, che non ne è la capitale, ma uno dei centri più importanti, già comunque suscita una reazione diversa: la città da mille e una notte è ben cristallizzata nell’immaginario collettivo (sarà merito di Vecchioni?). Soltanto che nessuno sa dove si trovi geograficamente. Una meta del genere non significa ostentare eccentricità a tutti i costi; comporta di sicuro, invece, avviare un percorso diverso di conoscenza. Lo Stato è situato nel cuore dell’'Asia centrale e confina a Nord e ad Ovest con il Kazakistan, a Est con il Kirghizistan ed il Tagikisan, a Sud con l'Afghanistan ed il Turkmenistan.
Partito da Crotone lungo la SS 106 E 90, ti rendi conto sempre più che la vera impresa epica è  uscire dalla città pitagorica o rientrarvi.  Ebbene sì, malgrado gli anni passino, il tracciato è sempre lo stesso, la velocità di percorrenza e la pericolosità, idem. Stazioni ferroviarie chiuse, aeroporto in crisi e Lamezia Terme unico nodo nazionale e internazionale sempre più scollegato ed isolato. Colpa di chi, lo sappiamo bene….Uzbekistan? Pullman strapieno, aria condizionata “volubile” e tipica signora  che sbocconcella un panino alla mortadella proprio dietro al tuo sedile, saturando l’aria di odori non proprio concilianti con il sonno. In mezzo a tanto trambusto, si sente l’urlo di un  bambino che tanta voglia di dormire non ha.  Sembra di trovarsi sulla barca di Caronte e, amaramente, ci si accorge di non essere poi tanto lontani dal  tanto paventato Terzo Mondo. Insomma, tutto il tragitto continua stancamente tra i commenti e le lamentele, i pettegolezzi e le chiacchiere. Si passa per Strongoli, Torre Melissa, Cirò Marina e Crucoli, poi, la provincia di Cosenza, il Pollino e finalmente la mattina si arriva a Roma. Breve sosta nella capitale con 40° all’ombra e alle 11:00 partenza con volo Uzbekistan Airways per Tashkent. Sull’aereo tanti  disciplinatissimi cinesi con le loro macchinette fotografiche, arabi e qualche italiano. Atterriamo perfettamente in orario alle 20:00, dopo aver compilato il questionario di rito per l’ingresso nel Paese. Si entra nell’aeroporto e si aspettano con tanta suspense le valigie. Eccole. Poi la dogana: inflessibile e professionale il personale verifica di tutto. 

All’uscita, in un cortile esterno all’infrastruttura aeroportuale ben sorvegliato dalla polizia, si intravedono le persone in attesa. Infatti, nessuno può accedere alla struttura senza regolare biglietto. Una Tashkent notturna ci accoglie con il tipico luccichio delle grandi città occidentali: più di due milioni d’abitanti e una metropolitana che, in termini architettonici, viene considerata la più maestosa e riccamente adornata dopo quella di Mosca, vorranno pure significare qualcosa. È la punta di diamante e l’orgoglio della nazione; il cuore pulsante di un popolo che, pur rispettando e conservando le proprie tradizioni, sta cercando con caparbietà di cambiare. Cambiamo qualche euro in valuta locale e con enorme meraviglia ci troviamo tra le mani un’enorme mazzetta di moneta cartacea: sono i Som uzbechi. Chi si aspetta il folklore, il mistero e la magia dovrà attendere; occorre  ancora un nuovo  volo mattutino interno per Urgench, città dell’Uzbekistan meridionale e capitale della regione di Xorazm. Arrivati in questo centro voluto dai sovietici non si può fare a meno di notare la desolazione che in questo luogo grava su ogni cosa: case, vicoli etc.. Poco distante da qui, c’è quel che rimane del lago Aral; la nostra guida uzbeka ci racconta che è ancora molto vivo il ricordo dello spaventoso disastro ambientale provocato dallo svuotamento delle acque dello stesso per irrigare le piante da cotone. Ci mostra anche alcune fotografe che, impietosamente, ritraggono la fine di un intero ecosistema. 

Anche il noto politico statunitense Al-Gore,nel suo celebre documentario ambientalista “La scomoda verità,cita tale caso come uno dei più inquietanti drammi  perpetrati ai danni dell’ umanità. Partiamo poi per Khiva. Non è molta la distanza, quasi 30 km attraverso la calura pesante e sterminati campi di cotone. Lungo la strada, come d’altronde ci capiterà di assistere in altre aree del paese, le donne passeggiano in mezzo a piccoli mercatini con i loro ombrelli colorati: qui sono utilizzati per proteggersi dal sole e non dall’acqua. La città, antichissima (circa 2500 anni), è un “prodigio” in mezzo al nulla. È una gemma di incomparabile splendore a ridosso di abitazioni povere e fatiscenti. Per la  strada incrociamo un donna che trascina un carretto carico di cotone con accanto il suo bambino di cinque o sei anni, qualche capra che pascola  inebetita dal sole implacabile e un gruppo di anziani  sdraiati, intenti a controllar che tutto (?) sia in ordine. La vita  da queste parti è estremamente dura e i mezzi di locomozione sono quelli del nostro non lontano passato: muli e asinelli, con il tocco esotico di qualche paziente e rassegnato cammello.

Attraversare le possenti mura color ocra di Khiva, sotto lo sguardo grave di Al-Khorezmi, scienziato persiano immortalato in una colossale statua, significa andare a ritroso nel tempo: un villaggio mediorientale e medievale di mattoni argillosi popolato da nugoli di bimbetti pacifici e gioiosi, nonostante condizioni di vita spietate: l’età media, qui, si aggira intorno ai cinquanta anni, sia per le violentissime escursioni termiche, da meno 20° in inverno a +40° in estate, sia per l’eccessiva salinità dell’acqua, tutte conseguenze del prosciugamento “coatto” del lago. Ad ogni ingresso ci si trova di fronte una signora che chiede qualche som per fotografare. I colori dei maestosi minareti sfarzosi e sfacciati stridono con il  monotono color terra degli intonaci e dei visi abbronzati. Il blu, il verde acqua, l’oro di maioliche preziose  e ricercatissime sembrano sovrastare alteri e lontani  le miserie di una comunità, nonostante tutto, dignitosa e ospitale. Le medresse (scuole coraniche) a Khiva sono ben sedici, indizio evidente dell’importanza religiosa e politica rivestita in passato dalla cittadina. Sono tutte straordinariamente belle e diverse per molti aspetti dai caratteri tipici dell’architettura islamica mediorientale; tra queste la medressa Muhammad Rakhim Khan, il mausoleo di Sayid Allauddin, il mausoleo di Pahlavòn Mahmud (umanista, atleta leggendario, poi santo patrono: la  sua tomba  e le pareti adiacenti  sono abbelliti con  alcune delle più belle piastrelle decorate di Khiva); il minareto di Kalta Minor si presenta tozzo e cilindrico, una sorta di immane sigaro, abbagliante nelle sue verdi iridescenze. Entrando nella  penombra olezzante della moschea di Juma, invece, con le tipiche 218 colonne in legno tutte diverse l’una dall’altra, si percepisce un’atmosfera diversa… Nelle molteplici sfumature cromatiche viranti al rosso e all’oro (colore di Zoroastro, non dell’ Islam!) del soffitto e nelle affusolate forme “pagoidali” dei porticati laterali si rinviene più di un richiamo alle poco lontane, grandi, civiltà asiatiche, Cina e  India.
Il giorno dopo si parte per raggiungere un’altra  gloriosa città-museo, Bukhara, ex capitale del regno Samanide e autentica mirabilia architettonica. Per arrivarci, la strada è veramente lunga: oltre 470 km nel deserto rosso. La distanza in sé non è eccessiva, ma i tempi  di percorrenza lo sono di sicuro: più di nove ore di viaggio nel caldo infuocato ( 65°-55 ° circa)   su una strada che, a tratti, ricorda un budello appena sterrato. La polizia, assai scrupolosamente, prende nota della targa del pullman; se non si dovesse avere notizia del nostro arrivo dall’altra parte del percorso, ci useranno la premura di venirci a cercare. Che professionalità. Magari si utilizzassero le stesse accortezze sulla S.S 106 o sulla Sa-RC! Scherzi a parte, il paesaggio monotono e spettrale mette i brividi: fermarsi, senza soccorso tempestivo, sarebbe fatale. Toilette all’aperto e pranzo nell’unica rest-house incontrata lungo il tragitto. Il cibo è alla buona: spiedini di carne e qualche pezzo di formaggio con poca verdura di contorno; è solo un modo per interrompere e prendere una pausa prima dell’ultima tratta. Per fortuna, si arriva nel tardo pomeriggio alla nostra meta e, miracolosamente, ancora una volta la Bellezza ci abbaglia, questa volta in forma più leggiadra, ma non meno regale.  Dopo aver depositato i bagagli nell’alberghetto di fronte alla piazza Lyabi-Hauz, usciamo per fare un primo sopralluogo. Scopriamo che il posto è molto frequentato dagli abitanti. Proprio nel centro della piazza si trova una vasca del 1620 circondata da enormi gelsi secolari adornati con sagome di cicogne e da statue di cammello su cui giocano, incontrastati, i bambini. Ad est della piazza si erge la Medressa di Nadir Divambegi, dalla parte opposta è ben visibile la Khanaka di Nadir Divambegi, struttura adibita alla preghiera nella quale venivano alloggiati i dervisci sant’uomini, il cui scopo della vita era cercare Dio attraverso una vita votata alla povertà e alla contemplazione.
Di fronte alla medressa, confusa tra gli alberi, si staglia, sbilenca e buffa la statua di Mulla Nasruddin in groppa al suo asino recalcitrante, mentre le babbucce gli escono dai piedi. Una rappresentazione simile, ben poco autorevole, non deve sorprendere. Il personaggio in questione appartiene alla cultura popolare di tutto il mondo praticato dagli arabi, e si caratterizza proprio per l’ingegno bizzarro e le strane sortite tra la furbizia e la geniale idiozia. Poco lontano dalla piazza si possono trovare anche la vecchia sinagoga ed il quartiere ebraico. La residenza reale Akr è sontuosa e elegantissima; i minareti delle medresse, uno scintillio di luce. La grazia è il comune denominatore del posto. I giardini ombrosi e traboccanti bimbi festanti, i deliziosi bazar coperti nei mercatini all’ingresso dei principali monumenti, la mercanzia variopinta e profumata, il sorriso delle donne  ben acconciate, anche se semplicemente, prive in maggioranza di veli o foulard comunicano serenità e rilassatezza. La forte componente persiana nel culto religioso antecedente agli arabi prima e il laicismo ferreo imposto dai russi poi hanno determinato un islamismo piuttosto moderato che non conosce eccessi, nemmeno durante il mese di Ramadan. Perfino gli alcolici e gli insaccati di carne di maiale vengono serviti senza troppe difficoltà ai turisti, che vengono liberamente  ammessi all’interno di tutti gli edifici e luoghi sacri e non percepiscono mai il disagio di “essere di troppo”. La sera si ravviva e si accende di  mille colori con i balli folkloristici del luogo; al tramonto, nella medressa  Nodir Devon Beghi,  alcune ragazze si muovono con leggerezza mentre propongono il loro ballo tradizionale; la sensualità non è esibita, come avviene nella danza del ventre araba; anzi, le giovani, vestite con sgargianti tuniche di seta castigatissime, piroettano e ondeggiano in complesse coreografie a metà strada tra le giravolte dei dervisci e il flamenco spagnolo, con  qualche tocco indiano nel movimento sincopato del collo e degli occhi.  Dopo Bukhara, sarà possibile trovare spettacoli ancora più emozionanti? La risposta arriva dopo un percorso di 420 Km, lungo l’antica e faticosa  via carovaniera della Seta percorsa da Marco Polo.
Sosta a Shakhrisabz, la città verde. Qui nacque Tamerlano, il quale decise di abbellirla in ogni modo. I resti del palazzo di Ak-Saray lasciano immaginare uno sfarzoso passato: la gigantesca porta superstite misura ben 40 metri, irradiando sullo sguardo sognante dei pochi turisti “fotoni” accecanti di luce blu oro. 
Prendiamo la navetta e raggiungiamo  anche i complessi funebri Dorut-Siorat e Dorut-Tilovat e la moschea Kok-Gumbaz. Non mancano neanche in questo caso le arditezze arcitettoniche da racconto fiabesco. Tuttavia quello che vedremo in seguito sarà, per quanto sembri impossibile, ancora più straordinario.
Nella calda luce mattutina del sesto giorno di viaggio, dopo tante emozioni, quando si pensava di essere diventati in un certo senso assuefatti alle espressioni artistiche uzbeke, Samarcanda, imperiale, appare come una radiosa visione, un miraggio: è esattamente nel modo in cui un occidentale imbevuto di fantasticherie sull’Oriente si aspetta che sia. La città è strettamente collegata al nome del condottiero Tamerlano, che, nel 1369, la decretò capitale  di un grandioso  impero molto esteso e per questo motivo volle farne il suo manifesto e l’emblema del suo potere sulla terra e sugli uomini. Dopo aver visitato il favoloso mausoleo Gur-Emir, sepolcro della dinastia dinastia di Amir Temur, la cui cupola è alta quasi 13 metri ed ha un diametro di 15 metri, piazza Reghistan, veramente, non delude le aspettative degli ospiti più esigenti, suscitando in tutti gli astanti un profondo senso di  vertigine, di totale, beato, smarrimento; essa è di incantevole splendore; i monumenti (la madrasa di Ulugbek, la madrasa Sher Dor, la madrasa Tillya-Kari), davvero imponenti, grandeggiano vicinissimi l’uno all’altro in uno stordente sfolgorio di pietre preziose, ori, stucchi, ceramiche e smerlature che mozzano il respiro. Sembra che per realizzare la cupola d’oro della madrasa Tillya-Kari siano stati necessari 19 Kg di oro fino. Sbalorditiva per dimensioni e colori (spettacolare è la particolare gradazione di blu cobalto, il cui segreto pare fosse conosciuto solo da  Tamerlano, da sua moglie Bibi e dall’architetto incaricato dei lavori) è la moschea di Bibi Khanim, eretta dal condottiero proprio in onore della  consorte; Struggente l’immane necropoli puntellata dagli imponenti mausolei della famiglia reale  e dei personaggi più eminenti dell’epoca. L’intero complesso architettonico costituisce la summa dell’arte e della tecnologia orientale di quei tempi;ora si può ben comprendere che le definizioni che hanno da sempre accompagnato il nome di questo  indimenticabile luogo “ Giardino dell’Anima” e “Centro dell’Universo” sono tutt’altro che pomposi. Anzi, non palesano neanche la metà di tutto quello che la città  incantata  potrà regalare al prossimo, volenteroso, visitatore. 

Pubblicato sulla rivista la Provincia kr n.2, settembre 2013