domenica 17 novembre 2013

I viaggi di Gulliver: diario dall'Uzbekistan

Samarcanda 
Sulla via della seta: Khiva, Bukara, Deserto Rosso


di Romano Pesavento




Ogni volta che si affronta un viaggio penso a quale affascinante mondo si possa prospettare e dischiudere davanti agli occhi del visitatore. Soprattutto quando la meta è lontana e non tanto frequentata dai circuiti del turismo di massa. La globalizzazione ha creato tanti stereotipi a cui il consumismo si è, ulteriormente, ispirato per condizionare i gusti e omologare tendenze e scelte che, inevitabilmente, finiscono per isterilire la  fantasia delle persone. Per questo oggi più che mai l’esperienza del viaggio deve possedere risvolti e significati tali da stimolare la curiosità e rendere autenticamente vivo l’interesse della scoperta culturale.
L’Uzbekistan è un paese poco conosciuto e citarlo all’orecchie dei più significa, nella maggior parte dei casi, raccogliere una serie di espressioni sbalordite o sguardi attoniti/perplessi. Samarcanda, che non ne è la capitale, ma uno dei centri più importanti, già comunque suscita una reazione diversa: la città da mille e una notte è ben cristallizzata nell’immaginario collettivo (sarà merito di Vecchioni?). Soltanto che nessuno sa dove si trovi geograficamente. Una meta del genere non significa ostentare eccentricità a tutti i costi; comporta di sicuro, invece, avviare un percorso diverso di conoscenza. Lo Stato è situato nel cuore dell’'Asia centrale e confina a Nord e ad Ovest con il Kazakistan, a Est con il Kirghizistan ed il Tagikisan, a Sud con l'Afghanistan ed il Turkmenistan.
Partito da Crotone lungo la SS 106 E 90, ti rendi conto sempre più che la vera impresa epica è  uscire dalla città pitagorica o rientrarvi.  Ebbene sì, malgrado gli anni passino, il tracciato è sempre lo stesso, la velocità di percorrenza e la pericolosità, idem. Stazioni ferroviarie chiuse, aeroporto in crisi e Lamezia Terme unico nodo nazionale e internazionale sempre più scollegato ed isolato. Colpa di chi, lo sappiamo bene….Uzbekistan? Pullman strapieno, aria condizionata “volubile” e tipica signora  che sbocconcella un panino alla mortadella proprio dietro al tuo sedile, saturando l’aria di odori non proprio concilianti con il sonno. In mezzo a tanto trambusto, si sente l’urlo di un  bambino che tanta voglia di dormire non ha.  Sembra di trovarsi sulla barca di Caronte e, amaramente, ci si accorge di non essere poi tanto lontani dal  tanto paventato Terzo Mondo. Insomma, tutto il tragitto continua stancamente tra i commenti e le lamentele, i pettegolezzi e le chiacchiere. Si passa per Strongoli, Torre Melissa, Cirò Marina e Crucoli, poi, la provincia di Cosenza, il Pollino e finalmente la mattina si arriva a Roma. Breve sosta nella capitale con 40° all’ombra e alle 11:00 partenza con volo Uzbekistan Airways per Tashkent. Sull’aereo tanti  disciplinatissimi cinesi con le loro macchinette fotografiche, arabi e qualche italiano. Atterriamo perfettamente in orario alle 20:00, dopo aver compilato il questionario di rito per l’ingresso nel Paese. Si entra nell’aeroporto e si aspettano con tanta suspense le valigie. Eccole. Poi la dogana: inflessibile e professionale il personale verifica di tutto. 

All’uscita, in un cortile esterno all’infrastruttura aeroportuale ben sorvegliato dalla polizia, si intravedono le persone in attesa. Infatti, nessuno può accedere alla struttura senza regolare biglietto. Una Tashkent notturna ci accoglie con il tipico luccichio delle grandi città occidentali: più di due milioni d’abitanti e una metropolitana che, in termini architettonici, viene considerata la più maestosa e riccamente adornata dopo quella di Mosca, vorranno pure significare qualcosa. È la punta di diamante e l’orgoglio della nazione; il cuore pulsante di un popolo che, pur rispettando e conservando le proprie tradizioni, sta cercando con caparbietà di cambiare. Cambiamo qualche euro in valuta locale e con enorme meraviglia ci troviamo tra le mani un’enorme mazzetta di moneta cartacea: sono i Som uzbechi. Chi si aspetta il folklore, il mistero e la magia dovrà attendere; occorre  ancora un nuovo  volo mattutino interno per Urgench, città dell’Uzbekistan meridionale e capitale della regione di Xorazm. Arrivati in questo centro voluto dai sovietici non si può fare a meno di notare la desolazione che in questo luogo grava su ogni cosa: case, vicoli etc.. Poco distante da qui, c’è quel che rimane del lago Aral; la nostra guida uzbeka ci racconta che è ancora molto vivo il ricordo dello spaventoso disastro ambientale provocato dallo svuotamento delle acque dello stesso per irrigare le piante da cotone. Ci mostra anche alcune fotografe che, impietosamente, ritraggono la fine di un intero ecosistema. 

Anche il noto politico statunitense Al-Gore,nel suo celebre documentario ambientalista “La scomoda verità,cita tale caso come uno dei più inquietanti drammi  perpetrati ai danni dell’ umanità. Partiamo poi per Khiva. Non è molta la distanza, quasi 30 km attraverso la calura pesante e sterminati campi di cotone. Lungo la strada, come d’altronde ci capiterà di assistere in altre aree del paese, le donne passeggiano in mezzo a piccoli mercatini con i loro ombrelli colorati: qui sono utilizzati per proteggersi dal sole e non dall’acqua. La città, antichissima (circa 2500 anni), è un “prodigio” in mezzo al nulla. È una gemma di incomparabile splendore a ridosso di abitazioni povere e fatiscenti. Per la  strada incrociamo un donna che trascina un carretto carico di cotone con accanto il suo bambino di cinque o sei anni, qualche capra che pascola  inebetita dal sole implacabile e un gruppo di anziani  sdraiati, intenti a controllar che tutto (?) sia in ordine. La vita  da queste parti è estremamente dura e i mezzi di locomozione sono quelli del nostro non lontano passato: muli e asinelli, con il tocco esotico di qualche paziente e rassegnato cammello.

Attraversare le possenti mura color ocra di Khiva, sotto lo sguardo grave di Al-Khorezmi, scienziato persiano immortalato in una colossale statua, significa andare a ritroso nel tempo: un villaggio mediorientale e medievale di mattoni argillosi popolato da nugoli di bimbetti pacifici e gioiosi, nonostante condizioni di vita spietate: l’età media, qui, si aggira intorno ai cinquanta anni, sia per le violentissime escursioni termiche, da meno 20° in inverno a +40° in estate, sia per l’eccessiva salinità dell’acqua, tutte conseguenze del prosciugamento “coatto” del lago. Ad ogni ingresso ci si trova di fronte una signora che chiede qualche som per fotografare. I colori dei maestosi minareti sfarzosi e sfacciati stridono con il  monotono color terra degli intonaci e dei visi abbronzati. Il blu, il verde acqua, l’oro di maioliche preziose  e ricercatissime sembrano sovrastare alteri e lontani  le miserie di una comunità, nonostante tutto, dignitosa e ospitale. Le medresse (scuole coraniche) a Khiva sono ben sedici, indizio evidente dell’importanza religiosa e politica rivestita in passato dalla cittadina. Sono tutte straordinariamente belle e diverse per molti aspetti dai caratteri tipici dell’architettura islamica mediorientale; tra queste la medressa Muhammad Rakhim Khan, il mausoleo di Sayid Allauddin, il mausoleo di Pahlavòn Mahmud (umanista, atleta leggendario, poi santo patrono: la  sua tomba  e le pareti adiacenti  sono abbelliti con  alcune delle più belle piastrelle decorate di Khiva); il minareto di Kalta Minor si presenta tozzo e cilindrico, una sorta di immane sigaro, abbagliante nelle sue verdi iridescenze. Entrando nella  penombra olezzante della moschea di Juma, invece, con le tipiche 218 colonne in legno tutte diverse l’una dall’altra, si percepisce un’atmosfera diversa… Nelle molteplici sfumature cromatiche viranti al rosso e all’oro (colore di Zoroastro, non dell’ Islam!) del soffitto e nelle affusolate forme “pagoidali” dei porticati laterali si rinviene più di un richiamo alle poco lontane, grandi, civiltà asiatiche, Cina e  India.
Il giorno dopo si parte per raggiungere un’altra  gloriosa città-museo, Bukhara, ex capitale del regno Samanide e autentica mirabilia architettonica. Per arrivarci, la strada è veramente lunga: oltre 470 km nel deserto rosso. La distanza in sé non è eccessiva, ma i tempi  di percorrenza lo sono di sicuro: più di nove ore di viaggio nel caldo infuocato ( 65°-55 ° circa)   su una strada che, a tratti, ricorda un budello appena sterrato. La polizia, assai scrupolosamente, prende nota della targa del pullman; se non si dovesse avere notizia del nostro arrivo dall’altra parte del percorso, ci useranno la premura di venirci a cercare. Che professionalità. Magari si utilizzassero le stesse accortezze sulla S.S 106 o sulla Sa-RC! Scherzi a parte, il paesaggio monotono e spettrale mette i brividi: fermarsi, senza soccorso tempestivo, sarebbe fatale. Toilette all’aperto e pranzo nell’unica rest-house incontrata lungo il tragitto. Il cibo è alla buona: spiedini di carne e qualche pezzo di formaggio con poca verdura di contorno; è solo un modo per interrompere e prendere una pausa prima dell’ultima tratta. Per fortuna, si arriva nel tardo pomeriggio alla nostra meta e, miracolosamente, ancora una volta la Bellezza ci abbaglia, questa volta in forma più leggiadra, ma non meno regale.  Dopo aver depositato i bagagli nell’alberghetto di fronte alla piazza Lyabi-Hauz, usciamo per fare un primo sopralluogo. Scopriamo che il posto è molto frequentato dagli abitanti. Proprio nel centro della piazza si trova una vasca del 1620 circondata da enormi gelsi secolari adornati con sagome di cicogne e da statue di cammello su cui giocano, incontrastati, i bambini. Ad est della piazza si erge la Medressa di Nadir Divambegi, dalla parte opposta è ben visibile la Khanaka di Nadir Divambegi, struttura adibita alla preghiera nella quale venivano alloggiati i dervisci sant’uomini, il cui scopo della vita era cercare Dio attraverso una vita votata alla povertà e alla contemplazione.
Di fronte alla medressa, confusa tra gli alberi, si staglia, sbilenca e buffa la statua di Mulla Nasruddin in groppa al suo asino recalcitrante, mentre le babbucce gli escono dai piedi. Una rappresentazione simile, ben poco autorevole, non deve sorprendere. Il personaggio in questione appartiene alla cultura popolare di tutto il mondo praticato dagli arabi, e si caratterizza proprio per l’ingegno bizzarro e le strane sortite tra la furbizia e la geniale idiozia. Poco lontano dalla piazza si possono trovare anche la vecchia sinagoga ed il quartiere ebraico. La residenza reale Akr è sontuosa e elegantissima; i minareti delle medresse, uno scintillio di luce. La grazia è il comune denominatore del posto. I giardini ombrosi e traboccanti bimbi festanti, i deliziosi bazar coperti nei mercatini all’ingresso dei principali monumenti, la mercanzia variopinta e profumata, il sorriso delle donne  ben acconciate, anche se semplicemente, prive in maggioranza di veli o foulard comunicano serenità e rilassatezza. La forte componente persiana nel culto religioso antecedente agli arabi prima e il laicismo ferreo imposto dai russi poi hanno determinato un islamismo piuttosto moderato che non conosce eccessi, nemmeno durante il mese di Ramadan. Perfino gli alcolici e gli insaccati di carne di maiale vengono serviti senza troppe difficoltà ai turisti, che vengono liberamente  ammessi all’interno di tutti gli edifici e luoghi sacri e non percepiscono mai il disagio di “essere di troppo”. La sera si ravviva e si accende di  mille colori con i balli folkloristici del luogo; al tramonto, nella medressa  Nodir Devon Beghi,  alcune ragazze si muovono con leggerezza mentre propongono il loro ballo tradizionale; la sensualità non è esibita, come avviene nella danza del ventre araba; anzi, le giovani, vestite con sgargianti tuniche di seta castigatissime, piroettano e ondeggiano in complesse coreografie a metà strada tra le giravolte dei dervisci e il flamenco spagnolo, con  qualche tocco indiano nel movimento sincopato del collo e degli occhi.  Dopo Bukhara, sarà possibile trovare spettacoli ancora più emozionanti? La risposta arriva dopo un percorso di 420 Km, lungo l’antica e faticosa  via carovaniera della Seta percorsa da Marco Polo.
Sosta a Shakhrisabz, la città verde. Qui nacque Tamerlano, il quale decise di abbellirla in ogni modo. I resti del palazzo di Ak-Saray lasciano immaginare uno sfarzoso passato: la gigantesca porta superstite misura ben 40 metri, irradiando sullo sguardo sognante dei pochi turisti “fotoni” accecanti di luce blu oro. 
Prendiamo la navetta e raggiungiamo  anche i complessi funebri Dorut-Siorat e Dorut-Tilovat e la moschea Kok-Gumbaz. Non mancano neanche in questo caso le arditezze arcitettoniche da racconto fiabesco. Tuttavia quello che vedremo in seguito sarà, per quanto sembri impossibile, ancora più straordinario.
Nella calda luce mattutina del sesto giorno di viaggio, dopo tante emozioni, quando si pensava di essere diventati in un certo senso assuefatti alle espressioni artistiche uzbeke, Samarcanda, imperiale, appare come una radiosa visione, un miraggio: è esattamente nel modo in cui un occidentale imbevuto di fantasticherie sull’Oriente si aspetta che sia. La città è strettamente collegata al nome del condottiero Tamerlano, che, nel 1369, la decretò capitale  di un grandioso  impero molto esteso e per questo motivo volle farne il suo manifesto e l’emblema del suo potere sulla terra e sugli uomini. Dopo aver visitato il favoloso mausoleo Gur-Emir, sepolcro della dinastia dinastia di Amir Temur, la cui cupola è alta quasi 13 metri ed ha un diametro di 15 metri, piazza Reghistan, veramente, non delude le aspettative degli ospiti più esigenti, suscitando in tutti gli astanti un profondo senso di  vertigine, di totale, beato, smarrimento; essa è di incantevole splendore; i monumenti (la madrasa di Ulugbek, la madrasa Sher Dor, la madrasa Tillya-Kari), davvero imponenti, grandeggiano vicinissimi l’uno all’altro in uno stordente sfolgorio di pietre preziose, ori, stucchi, ceramiche e smerlature che mozzano il respiro. Sembra che per realizzare la cupola d’oro della madrasa Tillya-Kari siano stati necessari 19 Kg di oro fino. Sbalorditiva per dimensioni e colori (spettacolare è la particolare gradazione di blu cobalto, il cui segreto pare fosse conosciuto solo da  Tamerlano, da sua moglie Bibi e dall’architetto incaricato dei lavori) è la moschea di Bibi Khanim, eretta dal condottiero proprio in onore della  consorte; Struggente l’immane necropoli puntellata dagli imponenti mausolei della famiglia reale  e dei personaggi più eminenti dell’epoca. L’intero complesso architettonico costituisce la summa dell’arte e della tecnologia orientale di quei tempi;ora si può ben comprendere che le definizioni che hanno da sempre accompagnato il nome di questo  indimenticabile luogo “ Giardino dell’Anima” e “Centro dell’Universo” sono tutt’altro che pomposi. Anzi, non palesano neanche la metà di tutto quello che la città  incantata  potrà regalare al prossimo, volenteroso, visitatore. 

Pubblicato sulla rivista la Provincia kr n.2, settembre 2013