martedì 18 febbraio 2014

Il Boccone amaro

Ispirarsi a Brecht e Cola di Rienzo!!!



di Romano Pesavento


Chiudere gli occhi e riaprirli improvvisamente sapendo di non essere a Napoli ma a Crotone, nonostante il traffico incrudelito, i semafori non sempre perfettamente operativi, i parcheggi selvaggi  in doppia fila e una città al collasso economico facciano proprio pensare il contrario.
Fin qui nulla di diverso da gran parte delle disordinate città del Sud Italia e da quanto altre volte si è detto. Intanto, però, quando si cerca un posto per l’auto, ci si ritrova quasi sempre di fronte al meticoloso, premuroso e gentile aiuto offerto dai “niguri”, così sono chiamati da queste parti gli immigrati di colore. In mezzo al caos cittadino, sono proprio loro ad offrire un aiuto, un servizio in cambio di qualche centesimo all’ora, con l’aggiunta generosa della spesa consegnata proprio nella tua macchina. Certo ognuno fa quello che può per portarsi a casa un salario, che, nel nostro caso, si può aggirare all’incirca sui 350 euro al mese. Tutto ciò naturalmente dipende da quanti posti auto ciascuno di loro gestisce e dalla disponibilità dei proprietari del veicolo in questione.  
Tanti di noi, francamente, in molti momenti della giornata farebbero a meno di tutte queste “attenzioni”, anche perché la presenza e l’operatività di questi poveri giovani si è centuplicata al punto che, nelle aree nevralgiche della città (davanti alle poste, supermercati, ospedali, scuole!), non esiste un buco di ragno non sorvegliato diligentemente da un abusivo.
Ancora nulla di nuovo, se mai di… incrementato; il punto è che durante le festività natalizie appena trascorse la paradossalità di Crotone ha sfiorato il non-sense puro: chi si fosse aggirato alla ricerca di un parcheggio lungo le vie del centro, avrebbe dovuto fare i conti sia con gli ausiliari del traffico -quelli veri!- che con gli improvvisati extracomunitari, i quali, con indifferente nonchalance, continuavano a indirizzare, agevolare le manovre, eventualmente riscuotere qualche ricompensa, per nulla turbati o contrariati dalla presenza dei “concorrenti” ufficiali. Vi prego, uno per volta, un salasso del genere impensierirebbe i cittadini di Montecarlo, figuriamoci gli abitanti di una ex provincia meridionale allo stremo!. Soprattutto quando la giunta comunale, come si apprende dai media locali, aumenta con percentuali variabili tra il 19% e il 75% in relazione alla zona le tariffe sulle strisce blu. Tanti altri aspetti della vita crotonese risultano incomprensibili o più realisticamente intollerabili: strutture architettoniche marinettiane invasive, aerei fantasmi esosi (solo gli onorevoli si possono permettere simili tariffe), treni ormai diventati un ricordo, rifiuti tossici e non in ordine (?) sparso, cantieri aperti ovunque, beni culturali poco valorizzati. E poi ancora verde pubblico inesistente, mare ridotto a una misteriosa mistura, fame e disoccupazione dilaganti, bonifica industriale sempre più una promessa, omertà e perbenismo, svaghi per il tempo libero per gli adulti e i bambini: inconsistenti.   
La reazione ad una simile anomalia è una dogmatica rassegnazione da parte dei cittadini, che non sperano più e, con accanita convinzione, ripetono come un mantra ipnotico che “tutti sono uguali e sono tutti manciuni”. Sarà anche vero, ma dal vittimismo, dalla povertà culturale e materiale, ben poco di buono si può sviluppare; sarà un futuro, magari meno colto, Cola di Rienzo a conquistare i cuori del popolo crotonese? La storia insegna che i capi carismatici si possono trasformare, troppo spesso, in cattivi maestri. “Il peggiore analfabeta / è l’analfabeta politico. / Egli non sente, non parla, / né s’importa degli avvenimenti politici./ Egli non sa che il costo della vita,/il prezzo dei fagioli, del pesce, della farina,/dell’affitto, delle scarpe e delle medicine / dipendono dalle decisioni politiche. / L’analfabeta politico è così somaro / che si vanta e si gonfia il petto / dicendo che odia la politica. / Non sa l’imbecille che dalla sua / ignoranza politica nasce la prostituta, /il bambino abbandonato, /l’assaltante, il peggiore di tutti i banditi, / che è il politico imbroglione, / il mafioso corrotto, / il lacchè delle imprese nazionali e multinazionali.”
Le parole di Brecht scritte nel primo Novecento descrivono perfettamente  la realtà sconfortante, ma veritiera dell’attuale disaffezione politica. Soprattutto gli effetti vengono inquadrati con spietata lucidità; chi pensa che, chiudendo la porta dietro di sé, lascia fuori problemi non suoi, si sbaglia di grosso. Speriamo di accorgercene tutti per tempo.  


Pubblicato sulla rivista la Provincia kr n. 1-2 Gennaio / Febbraio 2014

I viaggi di Gulliver: Africa occidentale

Tutto l'oro del Marocco 

Dal Sahara alle città imperiali: sulle orme dei grandi registi americani



di Romano Pesavento


Arrivando a ogni nuova città il viaggiatore ritrova un suo passato che non sapeva più d'avere: l'estraneità di ciò che non sei più o non possiedi più t'aspetta al varco nei luoghi estranei e non posseduti. (Italo Calvino, Le città invisibili, 1972)
È agosto 2012; da qualche mese lo spettro della Primavera araba si aggira per gli stati dell’Africa settentrionale. I popoli manifestano e i dittatori tremano; la polizia lealista spara sulle piazze. Con la valigia e lo zaino a tracolla si parte per il Marocco. Non è un viaggio particolarmente lungo, ma il continente africano, così vicino e così lontano, rappresenta da sempre un confine – limite prima che “fisico”, ideologico. L’Africa: mistero, magia, miseria, arretratezza, alterità, alfa e omega delle  culture.  
Casablanca, la Città Bianca, vista dall’aereo è una distesa affollata di edifici nuovi, luminosi e piuttosto occidentalizzati; d’altronde è tra i più grandi agglomerati urbani del mondo arabo. Gli abitanti in tono irridente sostengono che non abbia una sua peculiarità, se non quella di essere tra le città marocchine la più “moderna” e meno autentica. Probabilmente a causa del terribile terremoto che colpì il Marocco nel 1755.
L’influenza francese è ben tangibile nell’ordine delle strade “razionali” e delle piazze assai lontane dal caos variopinto e terrifico delle medine. Ad ogni angolo si staglia sorniona e compiaciuta la gigantografia del re Mohammed VI che guarda con atteggiamento bonario il suo popolo, mentre centinaia di bandiere rosse con sopra impresso la verde stella islamica addobbano ogni recesso urbano. E già, lui  no. Re Mohammed VI pare proprio che non debba preoccuparsi dei sommovimenti e degli scossoni violenti dei suoi turbolenti vicini di casa: Egitto, Algeria, Tunisia, Libia. I “sudditi” marocchini qui sembrano contenti e decantano incessantemente le virtù del loro leader: illuminato come Augusto, paterno e salvifico come Noè. In effetti, di originale la metropoli possiede ben poco: l’imponente moschea di Hassan II (papà di Mohammed VI) la zona balneare della Corniche e la piazza delle Nazioni Unite. Saliamo sul pullman e ci dirigiamo verso Rabat, 90 chilometri più a nord. Arrivati  sul posto, si notano immediatamente gli ampi spazi di verde pubblico che decorano la capitale. D’altronde siamo nel “giardino di Allah”, così viene definita comunemente.
Visitiamo la tour Hassan, il minareto incompleto di quella che doveva essere la moschea più grande del mondo occidentale e il mausoleo di Mohammed VI. Caratteristica è la presenza statuaria delle guardie a cavallo (rigide e impettite nella loro postazione) che si trovano davanti  all’ingresso. Il complesso architettonico, datato 1199, contemporaneamente maestoso e incompleto, sprigiona un fascino indefinibile, metafisico, da quadro di De Chirico: 200 colonne lasciate a metà, sormontate da un minareto di ben 44 metri, assomigliano più ad una esperienza onirica che ad una classica prospettiva da cartolina. Consigliata la “visione” con la luna piena. Superate le mura cittadine, si giunge a Sala o Chellah, città romana, sorvegliata da colonie di cicogne innamorate. I nidi laboriosamente intrecciati di questi uccelli sormontano le antiche colonne romane. Per tutta la visita osservano silenziose gli intrusi turisti che invadono il loro territorio e ripercorrono le antiche vie tracciate dai sapienti architetti romani.
Una vasca antica con le anguille ed i gatti di Maometto in estatica contemplazione attirano l’attenzione; la signora marocchina, che custodisce il monumento, ci magnifica le proprietà apotropaiche del lancio, oramai internazionale, della monetina rituale. Ai turisti non è provato che possa portare bene, ma a chi raccoglie , sì. Si torna a Rabat e, dopo una passeggiata serale con la luna piena che sovrasta la Tour Assad, il giorno dopo si va a Mekness. Prima però di arrivare in città, deviazione, causa eccessivo caldo, per il sito archeologico romano di Volubilis. I resti romani ammaliano i visitatori, nonostante i 40°; colonne, volte e archi testimoniano eloquentemente un’epoca gloriosa, quando il Mare Nostrum abbracciava e affratellava più genti. I mosaici straordinari abbandonati all’incuria del solleone, un’enorme, elaboratissima porta romana di epoca augustea, curiosi simboli fallici (utilizzati a mo’ d’insegna pubblicitaria per ben orientare i potenziali clienti degli immancabili postriboli) rendono questo luogo piuttosto simile a Pompei o alla città di Efeso. Dopo qualche chilometro, eccoci a Mekness, la più maestosa città imperiale, nonché patrimonio mondiale dell’UNESCO. La tripla cinta muraria, lunga 40 chilometri costellata di bastioni, che ha custodito, per molto tempo, il luogo, difendendolo da potenziali nemici, e la porta Bab El Mansour, stupenda struttura architettonica, sono i suoi segni distintivi.

Da queste parti il Marocco assume la sua fisionomia più autentica; la cortesia ritrosa e pudica degli abitanti, soprattutto nelle donne, le abitazioni inaccessibili allo sguardo curioso del viandante, perché prudentemente dotate di finestre cieche o tendaggi ad hoc, rivelano un’islamizzazione piuttosto rigorosa, senza cedimenti. Il Ramadan è vissuto con forte intensità; la guida raccomanda in più occasioni di rispettare la sensibilità altrui attraverso una condotta severa; gli alcolici non vengono serviti, né devono essere richiesti e le moschee sono precluse ai visitatori occidentali. Dai minareti risuonano i richiami cantilenati del muezzin, mentre la popolazione, decisamente provata dall’astinenza da cibo e bevande protratta anche in un mese torrido come agosto, si aggira trascinandosi come in trance lungo le strade o sdraiandosi sotto il riparo del primo scorcio d’ombra a disposizione.
Perfino i colletti bianchi godono di una riduzione d’orario. E i nostri stessi accompagnatori, con ferrea volontà, continuano a lavorare nonostante l’astensione perfino dall’acqua. Da Casablanca in poi, peggiora vistosamente la condizione femminile; giovani donne e anziane signore passeggiano per le strade con il volto completamente coperto da veli neri; solo i bellissimi occhi appaiono in mezzo a tanta oscurità. In serata, siamo a Fes e il Medioevo sembra risorgere d’incanto dalle profondità del tempo: nei vicoli tortuosi, pericolosi e turbolenti della medina più grande del mondo, perdersi non è poi così difficile. E in quel caso sarebbero seri problemi. I visi, i vestiti, gli atteggiamenti, i mestieri e perfino le aspettative delle persone, qui, hanno ben poco del terzo millennio. I bambini, dotati di una petulanza e protervia rare, indotte dalla disperazione, tampinano senza sosta il turista, contendendoselo a suon di legnate  tra di loro o acrobazie di un certo pregio.
Per bene che vada si vivacchia con il commercio: tappeti, vasellame, tuniche colorate, carne di dubbia provenienza e più incerta conservazione, spezie, veli sgargianti e accessori decisamente “folk” concepiti per i matrimoni locali. Quando va decisamente male, il destino è piuttosto crudele: lavorare nella concia del pellame. Visitare questa “azienda” è tutt’altro che un’avventura da “romantica donna inglese”, se si è dotati di un minimo di sensibilità. Chi è addetto alle vasche, muore nel giro di poco tempo, minato dagli acidi e dalle malattie connesse alla manipolazione di escrementi e urina (!) per trattare il cuoio.
L’odore è insostenibile e i poveri disperati impiegati  in questi “lager” a vent’anni ne dimostrano cento: scheletrici, cianotici e privi di denti assomigliano a violacei ectoplasmi. Comprare borsette e cinture, ammettiamolo, in questo contesto è proprio impossibile, ma c’è chi lo fa, comunque. Italiani, brava gente. Dopo un’esperienza simile, solo gli spazi trascendenti del deserto possono riconciliarti con il cosmo e con te stesso.
Passiamo attraverso l’Alto Atlante, facendo una breve sosta a Midelt e raggiungiamo i 2.178 metri del Colle Du Zad sull’altopiano desolato punteggiato da Kasbah e oasi. Un breve incontro ravvicinato con le simpatiche scimmie di un boschetto vicino e,  dopo quasi circa 500 chilometri,  giungiamo a Erfoud: la porta d’ingresso del Sahara. Da subito avvistiamo i celeberrimi tuareg, o uomini blu; sono dotati ormai di telefono satellitare, ma continuano a muoversi lungo interminabili spazi con pazienti e fidi dromedari. Sta calando il tramonto e il deserto appare davanti a noi in tutta la sua maestosità. Il viaggio sulla groppa del quadrupede non è dei più confortevoli, ma l’emozione che si vive pensando ai viaggiatori, alle carovane, che da quei luoghi sono passati, cancella ogni fatica. Il sole piano piano scompare dietro le dune di Merzouga alte, dorate e seriche. Tutto intorno a noi si illumina di colori intensi e morbidi; il fascino del cielo cremisi, già trapuntato di stelle, fa sognare il “nomade” di turno a occhi aperti. Dopo una nottata passata nel deserto, si giunge, l’indomani, dopo una sosta a Tineghir, alle Gole di Todra.
Le pareti scoscese a strapiombo sono davvero impressionanti: sembra di trovarsi in un canyon statunitense. Il clima e la vegetazione di questi luoghi si distaccano completamente dai cliché occidentali sul Marocco. Ai piedi delle gole molte famiglie passano il tempo a leggere, giocare, riposare o si divertono a tuffarsi e a immergersi tra le acque fresche del ruscello.
Da qui si giunge a Boumalen sulle gole del Dades, tappa di transizione per la prossima meta: Ouorzazate, meglio nota come la Hollywood del deserto. Da queste parti sono passati tutti i più grandi attori   americani protagonisti di film che hanno lasciato un segno nella storia del cinema. Uno tra tutti : Il gladiatore. Dopo una breve visita alle affascinanti Kasbah di Ait-Haddou e Taourirt e il passaggio del colle Tizi-n-Tichka a 2.260 metri, fra i più alti del Paese, si arriva a Marrakech. La città più esotica del Marocco rispetta le previsioni del turista: piazza Djemaa El Fna, girandola di luci, colori, animali e improbabile cibo da strada, travolge e sconvolge ogni previsione. La sera si accende di mille bagliori luccicanti anche attraverso le movenze maliarde delle danzatrici del ventre; tale mestiere, considerando la rigida morale islamica, è assimilato a quello della prostituta, il cui termine corrispondente, nella lingua locale, è “ragazza di gioia”. La notte risuona di risate, musiche e balli anche perché, al tramonto del sole, si conclude il digiuno del Ramadan: colossali tavole fuori dagli edifici vengono imbandite con ogni tipo di frutta e pietanze.
Particolari sono alcune pentole di forma conica (tajin) in cui viene cucinato il kus kus. La gastronomia marocchina non è adatta agli stomaci delicati: spezie piuttosto forti insaporiscono e occultano i sapori delle vivande. Chi non ama il coriandolo, rinunci stoicamente a mangiare; qui lo metterebbero anche nel latte! Tra le opere architettoniche, meritano di essere viste le tombe Saadiane, i giardini di Menara, il palazzo della Bahia, l’esterno della Koutoubia e il minareto. Il giro in Marocco si conclude con una visita veloce ai monumenti relativi al periodo storico della colonizzazione portoghese di due piccole cittadine Essaouira e El Jadida: un’altra anima di questo straordinario Paese si è dischiusa al nostro sguardo rapito.


Pubblicato sulla rivista la Provincia Kr n.1-2 / Gennaio - Febbraio 2014.
Reportage fotografico presente nel mio profilo Facebook.