sabato 1 maggio 2010

Lo Stato di diritto nell’esperienza americana: il ruolo della Corte Suprema nel controllo della costituzionalità delle leggi

Romano Pesavento
giornalista pubblicista


Riflessioni conclusive


Oliver Wendell Holmes (1841-1935), grande giurista e giudice della Corte Suprema, disse:”il diritto è la profezia di ciò che faranno i tribunali.”
Il realismo giuridico nordamericano di cui Holmes è stato uno degli antesignani considera il diritto reale soltanto nel momento della sua applicazione; il processo non è già uno strumento del quale viene applicata la norma giuridica, ma il momento senza il quale il comando legislativo rimarrebbe formula morta.
Tale concezione del diritto trova nella vita giuridica degli Stati Uniti D’America e segnatamente nell’attività della Corte Suprema la sua premessa ideale e la sua conferma.
Nei suoi altri due secoli di vita, la Corte Suprema è stata la massima creatrice di diritto.Dagli esordi relativamente modesti (si pensi che il suo primo presidente John Jay si dimise per andare a negoziare un trattato) alla grande età di Marshall e Story è diventata non solo la custode della Costituzione, ma l’istituzione che più di ogni altra ha adattato l’esperienza giuridica al mutare delle esigenze sociali. Conclusa la grande età dei Warren e Burger la Corte Suprema sembrerebbe aver esaurito il suo ruolo rivoluzionario. In realtà anch’essa ne riflette le grandi trasformazioni della composizione etnica degli USA. Negli anni sessanta venne nominato il primo giudice nero Thurgood Marshall. La Corte Suprema si è arricchita di giudici provenienti da altre importanti minoranze; si pensi al giudice Anthony Scalia. In questo senso, di maggiore importanza appare la nomina da parte del presidente Obama del giudice Sony Sotomayor. Una lettura interessante e al tempo stesso riflessiva è ascrivibile al pensiero di Robert Dahl, nel suo libro Quanto è democratica la Costituzione Americana?, che, ponendo all’attenzione del lettore alcune considerazioni sulla Corte Suprema Federale, affronta il dilemma tra natura del potere legislativo e ruolo del potere giudiziario. In particolare, egli afferma che: “Non possiamo porre l’autorità di fare le leggi e decidere le politiche esclusivamente nelle mani di funzionari eletti che siano, almeno in linea teorica, responsabili verso i cittadini attraverso l’elezione e dare contemporaneamente al potere giudiziario l’autorità, in pratica, di decidere importanti misure politiche.[1][64]” Certamente, Dahl esprime un giudizio positivo sulla funzione della Corte Suprema Federale nel momento in cui essa svolge i compiti legati al suo ruolo istituzionale. Vi è così la convinzione che in un sistema democratico il potere di revisione della costituzionalità di misure legislative e amministrative spetti esclusivamente alla Corte Suprema. Il dubbio appare dal momento che la Corte assume il ruolo di corpo legislativo non eletto cioè quando come scrive Dahl “Con l’intento di interpretare la Costituzione – o, ancor più discutibile, di indovinare le intenzioni oscure e spesso insondabili dei Costituenti- l’Alta Corte promulga leggi e misure politiche rilevanti che sarebbero appannaggio delle cariche elettive. Anche nel campo dei diritti democratici fondamentali, le decisioni della Corte possono sollevare controversie. Che divengono sempre più probabili via via che la nostra concezione dei diritti democratici si evolve, com’è logico sia.” Anche se oggi gli obiettivi della Cote Suprema Federale non sono sempre ben definibili e sono spesso suscettibili di controversie nel mondo del diritto costituzionale americano, molti costituzionalisti sostengono che il vero obiettivo della giustizia costituzionale americana debba essere la giurisprudenza del giusto procedimento sostanziale. In particolare, occorre verificare se vi siano spazi per un’individuazione di nuovi diritti fondamentali all’interno della Due Process Clause racchiusi nel Quattordicesimo Emendamento. La Corte Suprema Federale e gli accademici del diritto statunitensi hanno, quindi, di fronte a loro il problema dell’interpretazione delle norme costituzionali e della clausola del giusto procedimento. Da una parte la discussione costituzionalistica ha generato modelli interpretativi[2][65] volti a considerare la qualità “politica-giuridica” e, dall’altra parte, il diritto costituzionale si è raffrontato con tali pareri teorici e in tanti casi ne è stato condizionato, secondo una logica di “reciprocità” costante tra percorsi giurisprudenziali e teorici che oggi è evidente e significativa.
Malgrado la presenza di molte teorie in materia di lettura ed applicazione della Due Process Clause le principali oggi sono l’originalismo e il metodo razionale o del giudizio ragionato. Con la sentenza Lawrence v. Texas del 26 giugno 2003 emessa dalla Corte Suprema Federale guidata da Rehnquist si afferma nella giurisprudenza americana del giusto procedimento sostanziale la soluzione interpretativa del “giudizio ragionato” che per molto tempo era stata offuscata da modello originalista. Alla luce di quanto esposto, la Corte Suprema continuerà, comunque, ad esercitare un ruolo fondamentale non solo nella “costruzione del diritto ma anche nell’interpretazione dei cambiamenti sociali degli Stati Uniti d’America.
Bibliografia

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- Ronchi Paolo, Un forma di democrazia diretta: l’esperienza del recall negli Stati Uniti, Quaderni dell’Osservatorio Elettorale, 61, 2009;
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- Zencovich Vincenzo Zeno, Libertà di stampa o diritto al profitto delle aziende editoriali, www.giur.uniroma3.it/materiale/docenti/zeno/materiale/2.105.pdf;



Lo Stato di diritto nell’esperienza americana: il ruolo della Corte Suprema nel controllo della costituzionalità delle leggi

Romano Pesavento
giornalista pubblicista
La Corte Suprema di Earl Warren

5.1 – Pronuncia in materia di desegregazione Brown v. Topeka

Nella storia dell’affermazione dei diritti civili negli Stati Uniti occupa, certamente, un posto non trascurabile la sentenza emessa ad unanimità il 14 maggio 1954 dalla Corte Suprema Federale guidata da Earl Warren sul tema della discriminazione razziale nel campo dell’istruzione.
Il caso “Oliver Brown contro il Consiglio scolastico di Topeka, Kansas” rappresentò, quindi, un decisivo passo avanti sulla strada della realizzazione dell’uguaglianza tra bianchi e neri nel settore scolastico. A partire da tale sentenza, come scrive Jeffrey Greenbaum, “la Corte di Warren apparve non più soltanto come l’interprete imparziale della legge, bensì come un organo di produzione giuridica (…) Essa, quindi, andò ben oltre il ruolo di semplice interprete della legge nel suo sforzo di promuovere i diritti civili e le libertà individuali. La Corte infuse nella clausola sulla “eguale protezione” del Quattordicesimo Emendamento molta più vita di quanto non avesse goduto fino ad allora.”
Per tal motivo, gli eventi che portarono a tale risoluzione della Corte meritano di essere brevemente ricordati. Nel 1951 venne presentata una causa contro il Board of Education della città di Topeka presso la corte distrettuale del Distretto del Kansas, in favore di Linda Brown, una studentessa di Topeka costretta a camminare per un miglio per raggiungere la sua scuola segregata nera, mentre una scuola bianca era a solo sette isolati dalla sua abitazione.
La causa della Brown ebbe il sostegno dell'NAACP (National Association for the Advancement of Colored People), il cui principale legale, Thurgood Marshall, egli stesso nominato alla Corte Suprema nel 1967, argomentò il caso. La corte distrettuale si pronunciò in favore del Board of Education, citando il precedente stabilito dalla Corte Suprema in Plessy v. Ferguson (1896), che permetteva alle leggi statali di richiedere carrozze ferroviarie "separate ma uguali" per bianchi e neri. Nel 1954 il caso giunse alla Corte Suprema Federale che emise la sentenze che conteneva la seguente conclusione: “Qualunque sia stato il grado delle conoscenze psicologiche al tempo del caso Plessy v. Ferguson, questa sentenza è ampiamente sostenuta dalle autorità moderne. Qualsiasi linguaggio in Plessy v. Ferguson contrario a questa tesi viene rigettato.
Concludiamo sostenendo che, nel campo dell’istruzione pubblica, la dottrina “separati ma eguali” non ha motivo di esistere. Strutture educative separate sono sostanzialmente diseguali. Quindi noi sosteniamo che i querelanti ed altri in situazioni simili siano, a causa della segregazione, di cui sono vittime, privati dell’eguale protezione della legge garantita dal 14° emendamento. Questa disposizione rende inutile ogni discussione se la segregazione violi o no anche la clausola del “giusto processo” del 14° emendamento.”
Importanti sono le motivazioni che hanno definito il raggiungimento di tale punto d'arrivo. Per illustrarle mi avvarrò dello studio di Cesare Pinelli che strutturandole in quattro parti così scrive: “La Corte osserva anzitutto che l’esame dei lavori preparatori del XIV emendamento non permette di accertare se gli autori del testo intendessero ammettere la regola della segregazione. Precisa poi che a differenza dei precedenti, nei quali la dottrina “separati ma eguali” riguardava i trasporti pubblici (Plessy v. Ferguson), o nei quali si discuteva della diseguaglianza fra prestazioni offerte nelle scuole per bianchi e in quelle per neri, il caso al suo esame impone di “esaminare gli effetti della segregazione in sé sull’istruzione pubblica”.
Il terzo passaggio è dedicato all’importanza dell’istruzione nella società democratica, “fondamento stesso della convivenza civile” e “strumento principale per rendere il fanciullo consapevole dei valori culturali, prepararlo alla sua successiva formazione professionale e aiutarlo ad adattarsi normalmente al proprio ambiente”.
Oggi, soggiunge la Corte, “è improbabile che un ragazzo possa ragionevolmente aspettarsi di riuscire nella vita se gli sia negata la possibilità dell’istruzione. Tale possibilità, dove sia lo stato ad assumersi la responsabilità di fornirla, è un diritto che dev’essere reso accessibile a tutti alle stesse condizioni”. Da tale rilievo, la Corte desume infine che tener separati alcuni ragazzi da altri della stessa età e capacità solo in ragione della loro razza “provoca l’insorgere di un sentimento di inferiorità riguardo al proprio status nella comunità, che può incidere sulla loro personalità in modo irreversibile....Concludiamo sostenendo che, nel campo dell’istruzione pubblica, la dottrina ‘separati ma eguali’ non ha motivo di esistere. Strutture educative separate sono sostanzialmente diseguali.”
Come lo stesso Pinelli ha evidenziato, esiste, in tale sentenza, un confronto diretto tra il principio del “separati ma eguali” ed il XIV emendamento teso ad abrogare ed a rendere incostituzionale qualsiasi norma che conducesse ad accentuare forme di sostanziale diseguaglianza tra razze diverse.
Su queste considerazioni possiamo affermare che Brown v. Board of Education of Topeka (1954) fu, certamente, un caso miliare della Corte Suprema, che mise esplicitamente fuori legge le strutture educative segregate per neri e bianchi, decidendo sulla base del fatto che la dottrina dell'educazione pubblica "separati ma eguali" non poteva veramente fornire agli americani di colore delle strutture paragonabili a quelle a disposizione dei bianchi. D’altronde fu proprio la stessa Corte ad affermare di non poter “portare le lancette dell’orologio indietro, nel 1868, anno di approvazione del XIV Emendamento” e di dover valutare in quel momento gli effetti, ritenuti discriminatori, della segregazione nelle scuole. La sentenza metteva in discussione, quindi, quanto la stessa Corte Suprema aveva sentenziato nel 1896 nel caso Plessy v. Ferguson. Come abbiamo già menzionato in tale situazione la Corte aveva dichiarato la costituzionalità di una legge della Louisiana del 1890 che stabiliva, nei trasporti ferroviari, che venissero offerti servizi e condizioni “eguali ma separati” per passeggeri bianchi e di colore. In tale occasione, la Corte aveva affermato: “Noi riteniamo che l’attore erri argomentando che la segregazione delle due razze imprima un sigillo di inferiorità alle persone di colore. Se è questa l’eccezione sollevata, non vi è dubbio che una tale conseguenza non potrebbe in alcun modo rintracciabile nella legge, ma solo nella interpretazione che la razza di colore ha scelto di dare a tale disposizione…. La tesi del querelante assume inoltre che la legislazione possa vincere il pregiudizio e che i diritti eguali non possano essere accordati al negro se non con la commistione forzata delle due razze. Non possiamo accettare questa affermazione. Se le due razze devono incontrarsi su pari termini di eguaglianza sociale, ciò deve essere il risultato di affinità naturali, di un mutuo apprezzamento dei meriti dell’altra, e di un consenso volontario degli individui. (La legislazione) non può sradicare istinti o abolire distinzioni basate su differenze fisiche, e ogni tentativo in questo senso non può che risultare in un accentuazione delle difficoltà dell’attuale situazione”. Successivamente il Pinelli ancora scrive: “Il raffronto col XIV emendamento della regola del “separati ma eguali” prevista nella legislazione di alcuni Stati si basava su un’interpretazione del principio di eguaglianza aggiornata alle condizioni dell’epoca, con richiami a studi sociologici e psicologici che dimostravano il senso di irreversibile inferiorità indotto dalla segregazione negli studenti neri. In questo contesto, osserverà Freund, la “sostanziale diseguaglianza” della segregazione potrebbe significare sia diseguaglianza in termini empirici, sulla base di studi che però possono a loro volta venire smentiti in seguito, sia che la segregazione equivale “sostanzialmente” a disparità di trattamento indipendentemente da accertamenti empirici, dunque in un’accezione di principio in grado di resistere nel tempo. Può darsi, peraltro, che l’insistenza sui concreti effetti della segregazione sugli studenti neri mirasse a restringere il caso al settore dell’istruzione pubblica, senza configurare esplicitamente un overruling dell’indirizzo generale della giurisprudenza sulla segregazione. Ciò equivaleva a pagare un prezzo in termini di estensione del principio, e infatti vi fu chi come Wechsler criticò subito Brown sulla premessa che la Corte spettasse enunciare principi neutrali, in quanto generali. Ma l’intento di circoscrivere la pronuncia al campo dell’istruzione faceva parte di una strategia persuasiva tesa a raggiungere il massimo consenso possibile su una questione destinata ad accendere forti divisioni nel Paese.” Certamente gli stessi movimenti afroamericani (National Association for the Advancement of Colored People[3][45]) vedevano nell’annullamento del principio “separati ma eguali” nel sistema dell’istruzione la possibilità di un’estensione dei diritti civili dei neri ad ulteriori campi sociali ed una maggiore opera di moralizzazione della condizione dei neri nell’intero Paese.
Ricordiamo che alcuni Stati (Alabama, Georgia, Louisiana, Mississipi e Carolina del Sud)[4][46], a quel tempo, poggiavano pesantemente sulla sottomissione di gran parte della popolazione nera. Per tal motivo molte fra le voci oltranziste invocarono la messa in stato d’accusa della Corte Suprema per tradimento nei confronti dei principi fondamentali del sistema costituzionale americano, e numerose richieste vennero rivolte al Congresso per apportare modifiche alla Costituzione sul tema dei poteri statali. L’intransigenza razzista si concretizzò anche nei diversi tentativi illegittimi di abolire le scuole pubbliche, sostituendole con altri istituti finanziati dai singoli stati, in molti dei quali furono escogitati sistemi per aggirare la sentenza del maggio’54. Le pressioni della NAACP portarono la Corte Suprema ad agire per un perfezionamento dei termini specifici di applicazione della sentenza, così nel maggio del 1955, con una dichiarazione, la Corte sollecitava gli stati a procedere con rapidità verso la desegregazione degli istituti scolastici, evitando tuttavia quella programmazione precisa che le speranze integrazioniste si aspettavano. In tale sentenza troviamo, infatti, scritto: “Per realizzare questo interesse potrà essere necessaria la rimozione di una serie di ostacoli alla transazione verso un sistema scolastico rispondente ai principi costituzionali richiamati nella nostra decisione del 17 maggio 1954.”
5.2 – Sentenze in materia di libertà di espressione: New York Times v. Sullivan, Street v. New York
“Per la prima volta, in questo caso ci è richiesto di determinare fino a qual punto le tutele costituzionali della libertà di stampa e di parola limitino il potere di uno Stato nel giudicare di una azione per danni derivanti da diffamazione a mezzo stampa, proposta da un funzionario pubblico contro critiche rivolte alla sua condotta ufficiale…[5][47]” Con questo quesito, la Corte Suprema Federale, nella sentenza New York Times vs. Sullivan del 1964, affronta la diatriba tra il diritto alla privacy e la libertà di espressione. Nel panorama giuridico americano la sentenza assume una considerevole importanza in quanto ha rappresentato la prima profonda modifica in materia di diffamazione, fino ad allora retta da una lunga tradizione di common law. A questo punto è il caso di ricordare brevemente la vicenda: “L.S. Sullivan era uno dei tre commissari eletti nella città di Montgomery, Alabama. Sullivan querelò per diffamazione a mezzo stampa quattro parti, includendo la New York Times Company[6][48], ed una giuria della Corte Circondariale della Contea di Montgomery gli aggiudicò danni per $ 500.000.
La Corte Suprema dell’Alabama ratificò il giudizio con la motivazione che le dichiarazioni fatte erano state infamanti in se stesse e false.”
Nel corso del 1964 il caso giunse alla Corte Suprema Federale che cassò la sentenza della Corte Suprema dell’Alabama affermando che: “la paura di condanne a risarcimento in base ad una normativa quale quella applicata dalla Corte dell’Alabama può essere notevolmente più inibente della paura di una incriminazione penale” e costituiva pertanto un’illecita limitazione alla libertà di manifestazione del pensiero.
Ben si comprende come fa il prof. Paolo Guarda, nel suo saggio La diffamazione a mezzo stampa in cammon law: profili civilistici, che “il punto giuridico in discussione nel caso era la costituzionalità della legge dell’Alabama, la quale richiedeva che il convenuto provasse solamente che le asserzioni fossero state “libelous per se”: tale era ritenuta essere una pubblicazione volta a danneggiare una persona, a ledere la sua reputazione o metterla in cattiva luce agli occhi dell’opinione pubblica. Allorquando un pubblico ufficiale fosse stato attore in una causa per diffamazione, la sua posizione governativa era già di per se sufficiente a far ritenere che la sua reputazione fosse stata lesa dalla presunta dichiarazione diffamatoria. Inoltre, una volta che il “libel per se” fosse stato dichiarato, il convenuto non aveva altra difesa se non quella di riuscire a persuadere la giuria che le affermazioni di cui era causa corrispondevano al vero. Al fine di proteggere il libero svolgimento del dibattito politico, la Corte stabilì che un pubblico ufficiale non poteva ottenere il risarcimento dei danni per una affermazione falsa e per lui diffamante se non fosse riuscito a provare che la dichiarazione era stata espressa con “actual malice”. Sotto la vigenza di questa regola, gli attori dovevano dimostrare che il convenuto aveva esternato affermazioni con la consapevolezza della loro falsità o con un’imprudente incuranza di tale circostanza.” La Corte Suprema nella sua decisione era arrivata alla conclusione che il Primo Emendamento impediva ad un pubblico ufficiale di chiedere i danni per diffamazione in relazione a critiche e notizie riguardanti la sua condotta ufficiale, a meno che la dichiarazione non fosse stata fatta con dolo, ossia con la conoscenza che era falsa, o con una completa noncuranza per l’accertamento della sua corrispondenza alla verità. La Corte osservò che i vantaggi di autocontrollo democratico derivante da un dibattito libero e non inibito, anche in presenza di errori in buona fede, superano di gran lunga i rischi che può correre la reputazione privata di un pubblico ufficiale.
Un’altro studioso lo Zencovich, d’accordo con tale visione, evidenzia, nel suo saggio Libertà di stampa o diritto al profitto delle aziende editoriali, l’essenza di questa nuova normativa: “le condanne per risarcimento, in particolare quelle esemplari, contrastano con la libertà di stampa perché determinano un atteggiamento di autocensura nella stampa. Ovverosia, il timore di pesanti perdite di profitti indurrebbe la stampa a non esprimersi in tutta libertà, soprattutto nel criticare pubblici funzionari e autorità. La strada scelta dalla Corte Suprema per tutelare la stampa dal pericolo di tali condanne è quella, come s’è visto, di trasformare la diffamazione da illecito civile in illecito civile di dolo, affrancando quindi la stampa dai principi della diligenza, normale o professionale, che generalmente sottendono la responsabilità civile, e aggravando l’onere della prova per la persona diffamata.”
In seguito altre sentenze della Corte Suprema ripresero e svilupparono il principio di libertà di espressione. A questo punto, la conclusione più consona che possiamo trarre è che la protezione della libertà di espressione come affermata nel Primo Emendamento rappresenta una delle maggiori differenze tra il defamation law inglese e quello americano.
Un caso che destò dissenso e controtendenza rispetto al parere della Corte nell’opinione di Warren fu quello relativo alla controversia tra Street v. New York del 1969. In particolare, si trattava del seguente avvenimento: “Sydeny Street, un Afro-Americano, dopo aver saputo che il leader per i diritti civili James Meredith era stato ucciso da un colpo di arma da fuoco sparato da un cecchino, appiccò il fuoco a una bandiera Americana all’incrocio fra St. James Place e Lafayette Avenue a New York. Street gettò la bandiera sul marciapiede quando questa cominciò a bruciare. Il funzionario di polizia che arrestò Stret testimoniò che, quando aveva chiesto a Street se era stato lui a dar fuoco alla bandiera, Street rispose: “si, è la mia bandiera; l’ho bruciata. Se lasciano che accada a Meredith ciò che gli è accaduto, non abbiamo bisogno di una bandiera American”. Street fu accusato di aver commesso l’illecito con premeditazione, per aver intenzionalmente e illegalmente profanato la bandiera americana.[12][54]” La Corte annullò il verdetto di colpevolezza basandosi sul Primo Emendamento che garantiva la libertà di parola e quindi proibiva agli Stati, sulla base del Quattordicesimo Emendamento, di infrangere protezioni costituzionali quali la "Carta dei Diritti" ed altri "diritti fondamentali" dei cittadini e delle persone sotto la giurisdizione degli Stati Uniti. Ad orientare la decisione Corte Suprema Federale è stato certamente l’esame di alcuni casi precedenti (Stromerg v. California, Thomas v. Collins, Borad of Education v. Barnette). Anche se appare importante il periodo in cui vengono presi in considerazione quattro punti (interessi governativi) per cui la condanna dell’imputato, a causa delle sue parole, possa essere plausibilmente giusta. Troviamo scritto: “1) un interesse a impedire all’imputato di continuare ad incitare con le sue parole la folla a commettere atti legali; 2) un interesse a prevenire che l’imputato pronunciasse parole così pronunciasse parole così l’ordine pubblico; 3) un interesse a proteggere i sentimenti dei passanti che potevano essere sconvolti dalle parole dell’imputato sulla bandiera americana; 4) un interesse ad assistere che l’imputato, senza tener conto dell’impatto dalle sue parole sugli altri, mostrasse il giusto rispetto per il nostro emblema nazionale.” La Corte dopo aver affrontato, uno per uno, tali punti ha ritenuto che “nessuno di questi interessi possa costituzionalmente giustificare la condanna dell’appellante per aver parlato come egli fece”. Il Chief justice Warren aveva un’opinione diversa. Warren pensava che gli atti compiuti da Street erano la vera causa della sua imputazione e che come lui stesso conclude “gli Stati ed il Governo Federale abbiano il potere di proteggere la bandiera da atti di profanazione e di oltraggio. Ma poiché la Corte non ha affrontato il punto in questione, non servirebbe a nulla esporre i motivi a sostegno della mia opinione (…) Dal momento che io sono convinto che la Corte dovrebbe esprimersi circa la costituzionalità della condotta di un imputato in questo caso e dal momento che sono del parere che questa condotta possa essere penalmente punita, io dissento.”
5.3 Pronuncia in materia processuale: Miranda v. State of Arizona
Il diritto al patrocinio legale, l’inammissibilità di confessioni rese in maniera impropria e la esclusione di mezzi di prova ottenuti illegalmente sono segni di riconoscimento importanti dell’opera di cambiamento e di riforma operati dalla Corte Suprema guidata da Warren nei procedimenti penali statali. La controversa decisione della Corte nel caso Miranda v. State of Arizona del 1966 è il simbolo di quanto notevole fu il mutamento nel rapporto tra competenza giudiziaria federale e Stati. Rapporto che vide crescere, considerevolmente, il peso della competenza giudiziaria federale a spese degli Stati.
Prendendo come riferimento casi già esaminati dalla Corte (Escobedo v. Illinois, Weems v. Unitated States, Bram v. United States, Carnely v. Cochran, Gideon v. Wainwright, Douglas v. California), eventi giudiziari storici (i processi di Sir Nicholas Throckmorton, di Udal, di John Lilburne, parere della Corte Suprema della California), manuali d’istruzione sugli interrogatori per la polizia, Warren scrisse in tale sentenza: “l’accusa non può usare dichiarazioni, non importa se a discolpa o accusatorie, che derivino da interrogatori dell’imputato fatte nelle stazioni di polizia, a meno che non venga dimostrato che sono state adottate quelle garanzie procedurali in grado di assicurargli il privilegio costituzionale di non autoincriminarsi. (…) Per quanto riguarda le salvaguardie procedurali che devono essere adottate, a meno che altri mezzi pienamente efficaci siano stati escogitati per informare gli accusati del loro diritto a rimanere in silenzio e per assicurare una costante opportunità di esercitare tale diritto, noi riteniamo necessarie tali misure. Prima di un interrogatorio la persona deve essere avvertita di avere diritto a rimanere in silenzio, che qualsiasi dichiarazione faccia può essere usata contro di lei e che ha il diritto alla presenza di un avvocato, sia di fiducia che d’ufficio. L’imputato può rinunciare a questi diritti a condizione che la rinuncia sia espressa volontariamente, consapevolmente e coscientemente.”
Libertà di azione nell’esercizio dei propri diritti del soggetto incriminato e relativo privilegio a non autoincriminarsi durante un interrogatorio in una stazione di polizia (rimanere in silenzio, essere informati sui relativi effetti di un eventuale testimonianza, diritto ad un consulente legale durante l’interrogatorio), elementi fondamentali del Quinto Emendamento, erano alla base della decisione della Corte Suprema Federale nel caso Miranda v. State of Arizona. Quindi con l’affermarsi del privilegio della non autoincriminazione, previsto nel Quinto Emendamento, reso applicabile agli Stati attraverso il Due Process Clause del Quattordicesimo Emendamento, la Corte sostenne la necessità di inserire tali tutele procedurali nel procedimento penale statale. Prima di tale revisione (caso Miranda) i poliziotti e i pubblici ministeri estorcevano confessioni dagli imputati al posto di polizia senza alcuna garanzia procedurale a favore dell’innocente. Ben si comprende, così, come tutto ciò apportava un notevole cambiamento nel diritto e nella procedura penale a favore dell’accusato.
A tal proposito Warren scrisse nelle conclusioni: “noi sosteniamo che quando un individuo viene arrestato o comunque privato in modo significativo della sua libertà dalle autorità e viene sottoposto ad interrogatorio, il privilegio di non autoincriminarsi è messo a repentaglio: Tutele procedurali devono essere impiegate per proteggere il privilegio e, a meno che altri mezzi pienamente efficaci non siano adottati per informare la persona del suo diritto a rimanere in silenzio e per assicurare che l’esercizio del diritto sia scrupolosamente onorato, sono necessari i seguenti provvedimenti. L’imputato deve essere avvisato prima di qualsiasi interrogatorio che egli ha il diritto di rimanere in silenzio, che qualsiasi cosa egli dica può essere usata contro di lui in tribunale, che egli ha il diritto alla presenza di un avvocato e che, se egli non può sostenere la spesa di un avvocato, se lo desidera, ne sarà nominato uno per lui prima di essere sottoposto a qualsiasi interrogatorio. La possibilità di esercitare questi diritti deve essergli offerta durante l’intero interrogatorio.”

5.4 Pronuncia in materia di rapporti Stato – Chiesa: Engel v. Vitale
All’inizio degli anni sessanta uno dei nodi più difficili da sciogliere fu la costituzionalità della pratica della preghiera nelle scuole pubbliche americane. Certamente, la problematica rientrava nel campo dei rapporti tra Stato e Chiesa. Nel 1962 il caso Engel v. Vitale metteva in risalto l’affermarsi di tale questione. La controversia fu sollevata dai genitori di alcuni studenti di una scuola pubblica di New Hyde Park, nello Stato di New York, che si erano lamentati sostenendo che la preghiera era in contrasto con le loro credenze religiose. La Corte Suprema Federale, guidata da Warren, decise a maggioranza che non si poteva istituzionalizzare una religione in quanto contraria al Primo Emendamento della Costituzione. La sentenza fu scritta dal giudice Black. Il quale, in un passo della decisione, mise in evidenza che “non fa parte dei compiti del governo comporre preghiere ufficiali per qualsiasi gruppo di cittadini americani, da recitare come parte di un programma religioso messo in atto dal governo[18][60].” Con la sentenza si stabiliva, così, l’eguaglianza davanti alla legge dei diversi credi religiosi deliberando che la preghiera cristiana recitata nelle scuole infrange il così chiamato "Establishment Clause of the First Amendment" in cui si afferma che "il Congresso non promulgherà nessuna legge volta a promuovere e consolidare una forma di religione". Analizziamo, adesso, la struttura della sentenza. Nella parte iniziale della sentenza viene messo in chiara evidenza il conflitto tra la norma costituzionale ed il comportamento normativo applicato dallo Stato di New York per promuovere la recitazione della preghiera delle Reggenti: “Pensiamo che, usando il proprio sistema di scuole pubbliche per promuovere la recitazione della preghiera dei Reggenti, lo stato di New York abbia adottato una pratica del tutto incompatibile con le Estamblishment Clause.” Successivamente, la Corte Suprema Federale, per decantare il principio di libertà di credo implicito in ogni singolo individuo e la tortuosa strada che ha portato gli Stati Uniti a garantire tale principio, prende in esame il periodo storico in cui si è avuta l’approvazione da parte del Parlamento inglese del Book of Common Prayer (1548 e 1549). L’importanza di tale testo è, ben evidenziata, dal giudice Black nella sentenza: “espone in minuti dettagli la forma e il contenuto di preghiere e di altre cerimonie religiose, approvati e da usarsi nella Chiesa d’Inghilterra, stabilita e sostenuta con le tasse pagate dai sudditi. Le controversie sul Book e su quale dovesse essere il suo contenuto, minacciarono più volte di distruggere la pace di quel paese via via che le forme approvate di preghiera nella chiesa stabilita cambiavano secondo le opinioni particolari dei singoli governanti in carica nei vari periodi.” Sulla spinta storica delle controversie nate dall’imposizione di emendamenti e di idee per modificare il Book da parte di gruppi potenti in Inghilterra nacquero in America ed in particolare nello stato della Virginia, al tempo della rivoluzione contro il dominio politico inglese (1785-1786), i Virginia Bill for Religious Liberty con il quale tutti i gruppi religiosi vennero posti in una posizione di eguaglianza rispetto allo Stato. Ecco allora che nasce la necessità di tutelare la libertà dell’individuo e la libertà di religione. Attraverso il Primo Emendamento della Costituzione, rafforzato dalle norme del Quattordicesimo Emendamento, si affermava quindi la garanzia che né il potere né il prestigio del Governo Federale sarebbe stato usato per controllare, sostenere ed influenzare il genere di preghiera che i cittadini americani potevano recitare, che la religione dei cittadini non deve essere soggetta alle pressioni del Governo per essere cambiata ogni volta che una nuova amministrazione politica venisse eletta[19][61]”. Dopo aver quindi affrontato l’importanza di una necessaria separazione tra Governo e religione volta a garantire la libertà dell’individuo, la sentenza entra nel merito della controversia in due parti fondamentali. Nella prima parte, facendo riferimento al programma dello Stato di New York, scrive: “Non può esservi dubbio che il programma dello Stato di New York relativa alla preghiera stabilisca il credo religioso rappresentato dalla preghiera dei Reggenti.” Nella seconda parte si pone, invece, l’attenzione alle limitazioni imposte su tale problematica dalla Establishment Clause: “ Né il fatto che la preghiera possa essere considerata neutrale dal punto di vista confessionale, né il fatto che sia facoltativo da parte degli studenti praticarla, possono servire a liberarla dalle limitazioni stabilite dalla Establishment Clause o da quelle della Free Exercise Clause del Primo Emendamento, le quali vigono anche contro lo Stato in virtù del Quattordicesimo Emendamento. Sebbene queste due clausole possano in certi casi sovrapporsi, esse vietano due tipi completamente diversi di usurpazione della libertà religiosa da parte del governo.” Nelle conclusioni la Corte afferma, così, l’incostituzionalità della legge dello Stato di New York: “Le leggi di New York che ufficialmente prescrivono la preghiera dei Reggenti sono incompatibili sia con gli scopi della Establishment Clause che con la stessa Establishment Clause.”
Lo spirito di laicità espresso dalla Costituzione veniva, perciò, sostanzialmente garantito.




















Lo Stato di diritto nell’esperienza americana: il ruolo della Corte Suprema nel controllo della costituzionalità delle leggi

Romano Pesavento
giornalista pubblicista
Reazione popolare e politica contro il ruolo della Corte Suprema


4.1 - Il progetto di Theodore Roosevelt

Nel corso del secondo decennio del XX secolo assistiamo, proprio in virtù della presa di posizione delle Corti sulle questioni di natura sociale ed economica, ad una reazione popolare nei confronti delle Corti. Ben si comprende, come sia proprio la massa lavoratrice a vedere nei giudici che ne fanno parte gli autori responsabili di tutti i difetti dell’organizzazione sociale. Cresce, così, l’ostilità nei confronti della legge, delle costituzioni e dei tribunali. Tali sintomi sono raffigurati, in modo chiaro ed approfondito, dalla stampa specialistica dell’epoca.
D’altronde, non era da eludere che tale situazione portasse verso una svolta. Svolta che si è tradotta in atti concreti presi nei confronti dei giudici.
Come prima reazione nei confronti del potere giudiziario vi è stata la minaccia del recall, ossia il potere degli elettori di rimuovere i giudici, prima della scadenza naturale del suo mandato.
Sull’argomento Lambert scrive: “I giudici – si è detto- esiteranno ad ostacolare le riforme imposte al parlamento da un preminente orientamento dell’opinione pubblica, se sapranno di poter essere perciò tradotti al giudizio di questa, sovranamente espresso mediante la scheda elettorale. E se, per avventura, questo timore non li trattenesse, il popolo avrebbe sempre il modo di spezzare la loro resistenza rimpiazzandoli con magistrati disposti ad inchinarsi dinanzi alla volontà del legislatore.”
Correva l’anno 1908 quando per la prima volta lo Stato dell’Oregon inserì nella propria Carta costituzionale l’espressa previsione del recall. Oltre ai giudici elettivi (c.d. judicial recall), la revoca interessava tutte le cariche pubbliche. Il modello del recall dei giudici fu ripreso anche dalla costituzione della California nel 1910 dove fu importante sia la posizione avuta dal governatore Hiram Johnson appoggiato dai progressisti della Lincoln-Roosevelt League sia la concessione di revisione della sentenza, data da alcuni giudici della Corte suprema californiana, che condannava un boss locale.
Con il passare del tempo le idee progressiste portate avanti dal Progressive Movement avevano trovato sempre più sostenitori in tutta l’America abbattendo i confini statali e arrivando fino a Washington D.C. Theodore Roosevelt, presidente degli Stati Uniti al tempo dei primi provvedimenti di democrazia diretta.
Egli, come politico progressista, era ben predisposto nei confronti del recall. Nonostante ciò, le sue più significative prese di posizione sulla democrazia diretta avvennero sotto (e contro) la successiva presidenza del suo collega di partito William H. Taft, quando Roosevelt, sebbene esponente di grande spicco dei Repubblicani, si era oramai ritirato dalle pubbliche scene. Taft vinse con molta facilità le elezioni presidenziali del 1908, anche grazie alla scia di successi che lo avevano contraddistinto gli anni precedenti, sotto la presidenza Roosevelt.
Taft era per natura un conservatore e nel corso del suo mandato tentò più volte di osteggiare gli istituti di democrazia diretta e quindi del recall.
Il nuovo Presidente accoglieva la tesi di coloro che sostenevano che il recall non era e non poteva essere la soluzione ai problemi della politica americana, la quale poteva essere migliorata solamente mediante l’elezioni di persone migliori da parte di un elettorato più responsabile. Il difetto di fondo era insito nel popolo, all’interno di questo bisognava operare, come se la reale soluzione alle difficoltà politiche si potesse trovare nella stimolazione dei cittadini.
Il judicial recall era considerato qualcosa di sovversivo, che erodeva alla base uno dei principi dell’America, la quale doveva avere dei «giudici che con coraggio si oppongono alla maggioranza» e non giudici la cui natura si «ridurrebbe a quella di voltagabbana e servitori a contratto, e l’azione giudiziaria indipendente diverrebbe una cosa del passato».
E’ significativo che entrambi gli schieramenti si rifacessero ai Founding Fathers. Come abbiamo già accennato fu proprio durante il suo mandato che Taft ebbe però la concreta opportunità di esercitare il suo “potere” nei confronti del judicial recall. Il caso Arizona del 1910 ne è la testimonianza più viva. In polemica con Taft, Roosevelt ritornò attivamente sul tema della democrazia diretta, fino al punto di candidarsi alle elezioni del 1912.
Egli, oltre ad essere favorevole al recall tout court, lo proponeva nei confronti delle sentenze che dichiaravano l’incostituzionalità di una legge.
L’impegno di Roosevelt non sortì però nessun effetto e il recall in ambito giudiziario rimase sempre con riferimento alla carica, alla persona del giudice tranne in uno Stato, il Colorado, dove si applica(va) anche contro le loro sentenze delle corti, inferiori o suprema che fossero (in particolar modo nei confronti delle sentenze di quest’ultima).



4.2 – Gli anni del New Deal

Dal 1912 al 1932 si alternarono alla presidenza degli Stati Uniti per due volte Woodrow Wilson, l’ideatore della “teoria della nuova libertà”, e per una volta Warren Harding, Calvin Coolidge, il puritano che coniò la frase: “l’affare dell’America sono gli affari. L’ideale dell’America è l’idealismo, e Herbert Hoover; mentre sempre nello stesso periodo alla guida della Corte Suprema Federale si susseguirono Edward White dal 1910 al 1921, William Taft dal 1921 al 1930 e Charles Hughes dal 1930 al 1941. Il 1932 divenne presidente degli Stati Uniti Franklin Delano Roosevelt.
Il cambiamento di Delano Roosevelt rappresentò un mutamento radicale di azione amministrativa, classe di amministratori e mentalità. Il “gruppo di giovanottoni”, come più di qualcuno apostrofava, che Roosevelt aveva condotto, dalle università, entro gli uffici della Casa Bianca rappresentavano il mezzo più efficace ed energico per esplicare la ricostruzione del tessuto connettivo della società Americana.
L’intera esperienza Roosevelt è contraddistinta da una competizione di idee senza precedenti e con pochissime regole, la quale andava ad esempio a riflettersi su un’impalcatura amministrativa confusa e disordinata nella quale, accanto ai tradizionali strumenti dell’esecutivo, si affiancarono istituti specializzati (previsti ad esempio dal Agricultural Adjustment Act -A.A.A-. o dal National Recovery Act –N.R.A. - ). La ripartizione delle competenze era tutt’altro che chiara e i casi di sovrapposizione erano frequenti. Tutta questa situazione stimolava l’impegno dei funzionari che sapevano di dover usare ogni mezzo tecnico e diplomatico per affermare la propria strategia e dipingeva soprattutto l’immagine d’un nuovo spirito Americano in cammino.
I principali atti del New Deal Rooseveltiano ebbero effettivamente una portata politica considerevole. Ben più d’uno parlò del New Deal come dell’esperienza di programmazione statale più audace mai compiuta in una economia capitalistica. E non mancarono degli attacchi feroci o delle prese di distanza in seno allo stesso schieramento democratico. I gruppi conservatori cercarono di costituire associazione per lanciare assieme un’offensiva programmatica o, come molti dicevano, una “controrivoluzione”, una battaglia aperta contro un “Presidente che era riuscito a soffocare la libera parola tanto sulla radio quanto sui giornali quotidiani”.
In verità però lo stesso fatto che questa riorganizzazione conservatrice covasse al di fuori della sfera del partito repubblicano era un segnale del vuoto politico che esisteva attorno al New Deal Rooseveltiano. Quando poi ebbe a costituirsi, la stessa American Liberty League, associazione conservatrice, “schierata a difesa dei principi della Costituzione Americana”, soffocò in breve dentro ai suoi stessi limiti e alle sue inadeguatezze. Gli atti cui abbiamo fatto riferimento sono in primo luogo l’Agricultural adjustment Act, il National Recovery Act e il Tennessey Valley Act. Il primo si confrontò con l’esigenza di portare i prezzi dei prodotti agricoli ad un livello pari a quello dei prodotti industriali. Alla fine la strategia inflattiva fu legata al progetto di assegnazione domestica e dunque all’assegnazione di indennizzi per una limitazione della produzione. Un Agricultural Adjustment Administration si sarebbe curata della gestione del programma e del controllo del mercato in maniera di guidarlo verso una posizione di equilibrio. A ciò venne affiancato un piano di finanziamento degli agricoltori, mirato soprattutto al ricatto delle ipoteche. Il National Recovery Act invece mirò a stabilire una ripianificazione industriale sulla base di una coordinazione forte tra i diversi gruppi industriali. Le associazioni industriali avrebbero concordato regole per un’onesta concorrenza e soprattutto avrebbero accettato e rispettato contratti collettivi con massimo delle ore lavorative, minimo delle paghe e altra condizioni di impiego. Un provvedimento per le licenze federali alle aziende mostrava l’influenza dei pianificatori su di un piano nazionale. L’Art. 2 dell’atto inoltre istituì un piano di lavori pubblici per circa 3.300.000.000 di dollari a sostegno dell’occupazione. L’intero progetto mirò ad incentivare l’occupazione e a restituire piena dignità alla figura del lavoratore, soppesando i rischi potenziali di accordi tra industrie, che avrebbero potuto rappresentare la causa di futuri monopoli lesivi della classe dei consumatori. Bisogna però aggiungere che l’esecutivo, con mezzi e pressioni spesso ai limiti della legalità, spinse le industrie ad accettare gli accordi e a condurli secondo logiche più legate al “public interest”. Il Tennessee Valley Act rappresentò invece un emblematico e significativo esperimento di ripianificazione e rivalorizzazione di un contesto territoriale nel quale nessuno più credeva e che l’intervento specifico federale seppe trasformare in un bacino di energia capace di riscattare l’esistenza di milioni di persone.
L’intero programma Rooseveltiano si scontrò con la tenace resistenza d’una Corte Suprema intimamente legata ai modelli interpretativi della Reconstruction.
L’avversione si verificò soprattutto nei confronti del National Recovery Act. Gli anni in cui lo scontro si fece più serrato e nei quali Henry J. Abraham individua delle tendenze al dominio giudiziale sono il 1935 e il 1936. La presidenza di Hughes ed una Corte d’ispirazione conservatrice bocciano infatti 13 “New Deal Acts”. Nel 1937 fallisce il tentativo di “packing” del Presidente ma tra 1937 e 1941 morti e dimissioni eliminano dalla contesa quattro giudici ultraconservatori, consentendo a Roosevelt di ridisegnare a suo favore la composizione della Corte. Il repentino cambio dell’indirizzo giurisprudenziale,che riabilitò il New Deal Rooseveltiano entro il bacino di principi della Costituzione e fissò un self-restraint della Corte a proposito della “legislative polcy-making, fu comunque legato tanto alla longa manus presidenziale sulla composizione della Corte quanto al successo e dunque ad una accettazione generalizzata dei principi del New Deal (diremmo dunque per effetto di quella “lived experience”, che penetra le valutazioni della Corte). Così il giudice Black commenterà più tardi: “Whether the legislature takes for its textbook Adam Smith, Herbert Spencer, Lord Keynes, or some other is no concern of ours”.
Bruce Ackerman mette a capo del processo di trasformazione dell’indirizzo della Corte il “Carolene products case” del 1938 e la “footnote” nella quale si negava che ogni intervento attivo dello Stato nell’economia ledesse i principi costituzionali Statunitensi e che “only if the regulatory intervention lacked all “rational basis” would the Court consider its constitutional invalidation”. Si parlò non a caso della “Carolene’s rational basis doctrine”. Il caso rappresenta l’emblema del cammino giuridico della rivoluzione Rooseveltiana, che non procederà attraverso emendamenti formali alla Costituzione, bensì attraverso pronunce giurisprudenziali. La Carolene’s footnote sarà considerata, al pari degli emendamenti (V° e XIV°), uno dei punti fondamentali per la moderna coscienza giuridica Americana. Tutto ciò denota una rivoluzione di valori e principi che si attua all’interno della Costituzione o meglio ancora dentro il sistema politico fissato dalla stessa. D’altronde uno degli obiettivi della “post New Deal Supreme Court” sarà quello di reperire una sintesi tra “Founding, Republican and New Deal principles”. La strategia utilizzata viene definita da Ackerman come una “rhetoric of specificity”. In concreto il corpo del “Bill of rights” viene suddiviso in 2 “liste specifiche” di diritti in maniera tale da fissare, accanto ad una serie di diritti sacri superati o meglio ridefiniti dal tempo (la “property” e altri diritti ad essa connessi), un’altra serie di diritti che, nella loro attualità e giovinezza, segnano la permanenza d’un’indistruttibile linea di continuità tra il Founding Time ed il New Deal. Ad esempio vengono valorizzati nelle pronunce il “due process of law”, la “freedom of speech”, la “religious freedom”. La Carolene’s footnote, in un altro passo , è illuminante: “It is also unnecessary to consider now whether legislation which restricts those political processes which can ordinarily be expected to bring about repeal of undesiderable legislation, is to be subjected to more exacting judicial scrutiny under the general prohibitions of the Fourteenth amendment than are most types of legislation. On restrictions upon the right to vote, the dissemination of information, interferences with political organizations, prohibition of peaceable assembly”. Risulta chiaro da queste righe che le tutele costituzionali stanno volgendo verso uno spiraglio interpretativo ben preciso che è quello della partecipazione politica. Gli stessi principi del XIV° emendamento vengono ora convogliati in un direzione di tutela delle minoranze contro i “prejudices of the majority”.
Gli eventi di questi anni riassumono il passaggio tipicamente Americano, o meglio la risposta del sistema Americano all’avvento della “egalitarian democracy”. E’ lecito parlare di tipicamente Americana perché le connessioni esistenti con il passaggio costituzionale che caratterizza la guerra civile sono abbastanza evidenti e legittimano una storia costituzionale che si evolve senza rotture. Esiste un organo del sistema che raccoglie le esigenze di cambiamento (il Congresso nel caso della guerra civile e il Presidente nel caso del New Deal) e che deve affrontare le frizioni mosse dal sistema. La Corte Suprema Federale in questi due casi emblematici interpreta quella funzione preservazionista assegnatale da Ackerman ma è giusto rilevare che forse una delle debolezze del “We the people- Foundations” è proprio una prospettiva restrittiva del ruolo della Corte Suprema, la quale partecipa ai processi innovativi del sistema anche con ruolo ben differente, a volte anche di stimolo. Ad ogni modo le vicende che contraddistinguono la “constitutional revolution” del New Deal rappresentano un passo significativo per calarsi all’interno delle dinamiche evolutive d’un sistema politico-giuridico di common law così peculiare quale quello statunitense.

Lo Stato di diritto nell’esperienza americana: il ruolo della Corte Suprema nel controllo della costituzionalità delle leggi

Romano Pesavento
giornalista pubblicista
L’ampliarsi del sindacato della Corte Suprema americana sulla ragionevolezza

3.1 – Orientamento restrittivo della Corte fino al 1890

Abbiamo già avuto modo di constatare come con la sentenza Malbury v. Madison si rendeva il potere giudiziario – inteso quale rappresentante virtuale del popolo costituente – responsabile della realizzazione e della difesa dei principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale. Al tempo stesso quella sentenza spogliava il potere legislativo del ruolo di interprete della Costituzione, dando vita a un vincolo giuridico permanente al potere della maggioranza, analogo a quello esercitato sui singoli dalle leggi ordinarie. Nel corso dell’Ottocento la Corte Suprema tentò a più riprese di rispondere alle critiche e agli attacchi che le vennero rivolti cercando di riprodurre all’interno della giurisprudenza americana l’immagine asettica e distaccata del giudice di common law. Il richiamo alla tradizione di common law svolse una duplice funzione: di freno alle spinte radicali che potevano derivare dalla teoria lockiana del contratto e di legittimazione di una visione del diritto che –in contrasto con la visione pubblica originaria legata alla scrittura stessa della Costituzione – si presentava ora quale ambito privilegiato di quella ragione “artificiale” che il giudice soltanto possedeva in virtù della propria formazione specialistica.
L’intero ambito dei rapporti economico contrattuali venne escluso dalla sfera della decisione politica e sottoposto alla competenza dell’azione giudiziaria. Le conseguenze di ciò andarono al di là dei rapporti economico-contrattuali. Basti pensare che nella sentenza Dred Scott v. Sandford del 1857 la Corte stabilì che la proprietà degli schiavi aveva lo stesso titolo a essere protetta di un qualsiasi altro tipo di proprietà.
Certamente il controllo di costituzionalità ha nel corso del tempo una sua evoluzione che ha dato corso all’assoggettamento del potere legislativo alla tutela di quello giudiziario. Occorre leggere la prima parte della sezione 10 dell’art. 1 della Costituzione: “Nessuno Stato potrà concludere trattati, alleanze o patti confederali; (…) o approvare alcun decreto di limitazione dei diritti del cittadino; alcuna legge penale retroattiva, ovvero leggi che portino alle obbligazioni derivanti da contratti….” o l’ultima parte dell’art. 5 del Bill of Rights dove troviamo scritto che nessuno potrà essere “privato della vita, della libertà o dei beni, se non in seguito a regolare procedimento legale” per riscontrare come tali clausole generali portassero le corti ad esercitare un controllo costituzionale che sempre più frequentemente degenerava da controllo di competenza legislativa a controllo esercitato sulla giustizia e sull’opportunità delle leggi. Tale situazione si è rafforzata con il XIV emendamento del 1868 che costituì le fondamenta moderne per il giusto processo e la clausola di uguale protezione nelle leggi di ciascuno stato. Lo scopo di tale norma giuridica doveva essere quello di garantire i diritti degli schiavi. Infatti in tale emendamento troviamo un’ampia definizione di cittadinanza che vanificava la già citata sentenza Dred Scott v. Sandford della Taney’s Court che escludeva gli schiavi e i loro discendenti dal godimento dei diritti costituzionali.
Da tale considerazione ben si comprende che la guerra civile e il sacrificio di Lincoln hanno certamente rappresentato un’esperienza decisiva nell’abbandono del regime della Taney’s Court. Da una parte l’approvazione di alcuni emendamenti e, in particolare del XIV°, sanzionarono l’eguaglianza formale che ogni Stato doveva riconoscere a tutti i cittadini. Dall’altra il Congresso, prendendo decisamente le redini della situazione, fece valere tutta la propria volontà di destabilizzare la Corte, variandone l’assetto compositivo per ben tre volte in un arco temporale che va dal 1863 al 1869.
La Corte che venne fuori da un periodo così convulso e denso d’avvenimenti era chiamata, a detta di Ackerman, in virtù del duplice obbligo di rispetto della continuità costituzionale ma anche della considerazione degli avvenimenti epocali che da poco si erano conclusi, a conciliare “Founding and Reconstruction Principles”. Se in un primo momento, e il riferimento è soprattutto alle Corti presiedute da Salmon Portland Chase (1864-74) e Morrison Remick Waite (1874-88), il lavoro della Corte conduce ad un restringimento della prospettiva garantista della Federazione al solo aspetto della non discriminazione razziale, così che i Founding Principles valevano per tutte le questioni altre, col tempo questa sintesi venne ad assumere e ad integrare a pieno le due prospettive. Tanto più la sintesi fu completa quanto più la “lived experience” dei giudici della Corte si allacciava alle esperienze ed ai mutamenti culturali e ideologici lasciati dalla guerra civile.
Parallelamente alla sintesi si affacciava però, nel seno della prospettiva di tutela garantistica della federazione Statunitense, un’interpretazione ben specifica delle libertà da tutelare o meglio ancora dello spiraglio attraverso cui filtrare la benemerita “American freedom”. Infatti le nozioni che, in virtù del quattordicesimo emendamento, vennero considerate come strettamente funzionali ad un’effettiva tutela della libertà dell’individuo furono considerate il “due process of law” e la concezione sacrale della proprietà e della libertà contrattuale.
Di qui la disposizione della prima sezione dell’emendamento: “Tutti gli individui nati o naturalizzati negli Stati Uniti, e soggetti alla loro sovranità, sono cittadini degli Stati Uniti, e soggetti alla loro sovranità, sono cittadini degli Stati Uniti e degli Stati in cui essi risiedono. Nessuno Stato promulgherà o applicherà leggi che limitino i privilegi o le immunità dei cittadini degli Stati Uniti; e nessuno Stato priverà alcuna persona della vita, libertà o proprietà senza una regolare procedura legale (due process law); né negherà ad alcuno, nella sua giurisdizione, l’eguale tutela di fronte alla legge”. Nell’ultima sezione troviamo scritto: “Il Congresso avrà il potere di dare attuazione, adottando un’apposita legislazione, alle disposizioni di questo articolo.”
Non più, quindi, il potere federale, ma il governo in generale, e i governi statali in particolare diventano allora l’oggetto dell’iniziativa dei tribunali volta a tutelare i diritti degli individui.
In merito alla possibilità dell’emendamento di aver raggiunto l’obiettivo prefissato, il professore Lambert ha un giudizio molto scettico, infatti sull’argomento le sue parole risultano molto chiare: “L’obiettivo immediato perseguito con l’emendamento –la protezione dei neri- non è stato raggiunto o lo è stato solo in parte. La storia di questo fallimento è stata eloquentemente ripercorsa da Lord Bryce in alcuni capitoli della sua grande opera del 1888, l’American Commonwealth, che sono stati quelli più scrupolosamente rimaneggiati ed aggiornati nelle successive ristampe. Ma ancora più significative, per un giurista, è la semplice lettura di qualche nota tecnica di giurisprudenza, come ne trovo, ad esempio, nella Harvard Law Review (anno XXXI, pp. 475-479), in cui, soffermandosi su leggi od ordinanze municipali di “segregazione” delle razze, l’annotatore passa in rassegna alcune decisioni con le quali le corti –dinanzi a disposizioni che imponevano alle società ferroviarie di predisporre scompartimenti separati per i bianchi e per la gente di colore, o che confinavano i neri nelle loro scuole speciali, o ne precludevano l’accesso alla proprietà immobiliare in certi quartieri delle città – hanno convalidato questi atti legislativi con il pretesto che, per il fatto stesso di vietare ai bianchi di mischiarsi ai neri e ai neri di mischiarsi ai bianchi, essi rispettavano l’eguale protezione delle leggi garantita alle due razze dal XIV emendamento.[1][27]”
Certamente tale emendamento ha condotto la giurisprudenza americana verso una gamma completa di garanzie offerte a tutti i cittadini per tutelare i diritti acquisiti o le loro situazioni consolidate dalle usurpazioni della legge. Alcuni studiosi hanno tracciato l’evoluzione storica di questa forma di ricorso giudiziario che porta effettivamente ad uno studio tecnico del XIV emendamento e della sua “due process clause”. A tal proposito Lambert prende a riferimento i saggi del giudice Charles H Hough e dell’avvocato Fletcher Dobbyns. Attraverso lo studio di Dobbyns, Lambert mette in evidenza la duplice deviazione subita dall’emendamento del 1868 nell’applicazione giudiziaria. Lo stesso scrive: “L’intenzione dei suoi autori, vigorosamente affermata tanto nei lavori preparatori che nella quinta sezione, era stata quella di “nazionalizzare le libertà civili” e di permettere alla legislazione federale di penetrare all’interno degli stati per imporvi una concezione uniforme dei diritti civili, alla quale le popolazioni del Sud restavano refrattarie.”
Anche se occorre ricordare che dopo gli Slaughter House Case (1873) che già circoscrivono la ratio del XIV emendamento, la Corte suprema limitava ulteriormente il portato normativo di questa disposizione nel 1883, con la decisione nota come Civil Rights Cases. In questa circostanza la Corte riteneva incostituzionale il Civil Rights Act del 1875, che vietava e puniva comportamenti discriminatori nei confronti della popolazione di colore in luoghi pubblici, alberghi, mezzi di trasporto.
Presupposto di tale provvedimento legislativo era che il XIV emendamento attribuisse al Congresso non solo la competenza ad adottare misure che rimediassero a leggi statali discriminatorie, modificandole o annullandole, ma anche quella a adottare misure positive volte a colmare lacune della legislazione statale, incidendo direttamente sulle condotte dei privati come su quelle dei funzionari pubblici. La Corte, chiamata a giudicare sulla legittimità del provvedimento federale, coglie invece l’occasione per smentire tale presupposto e negare al Congresso la competenza a disciplinare, attraverso il XIV emendamento, le condotte dei privati cittadini. La V sezione di tale disposizione, che riconosce al legislativo federale la facoltà di adottare la legislazione opportuna per dare esecuzione al contenuto dell’intero articolo, non conferisce al Congresso il potere di legiferare su materie di competenza tradizionalmente statale, ma solo quello di adottare una legislazione che corregga gli effetti di quella degli stati. Così, a parere della Corte, “nel caso considerato, finché non verrà approvata una legge statale [...] che violi i diritti dei cittadini tutelati dal XIV emendamento, nessuna legislazione degli Stati Uniti in base a tale norma potrà essere approvata, in quanto i divieti dell’emendamento sono rivolti a leggi ed atti statali.” Secondo Lambert tale giurisprudenza ha prodotto, quale risultato concreto, quello di eliminare dalla costituzione la quinta sezione del XIV emendamento e di affrancare gli Stati dalla tutela legislativa del potere federale. Naturalmente l’analisi riportata da Lambert conduce alla seguente dimostrazione: “dopo aver tolto al Congresso il potere di proteggere le minoranze locali dall’oppressione delle maggioranze formatesi nei parlamenti degli Stati, la giurisprudenza, con una seconda evoluzione, l’ha conferito alla magistratura, sia statale che federale. (…) Questo nuovo orientamento è stato provocato dalle nuove direzioni impresse dall’industrializzazione della società al police power della mano pubblica, definito dalla Corte Suprema, sin dal 1885, come il potere di dettare regole per promuovere la salute, la pace, la morale, l’educazione e il buon ordine pubblico del popolo e di legiferare per accrescere l’industria dello Stato, sviluppare le sue risorse ed aumentare la sua ricchezza e il suo patrimonio.”
Tutto ciò fa notare il nostro autore portò i privati e le società commerciali, impegnate nella prestazione di servizi di utilità pubblica, a rivolgersi ai tribunali per far dichiarare incostituzionali sulla base del XIV emendamento quegli atti legislativi che limitavano l’esercizio della loro liberà d’iniziativa economica. In un primo momento i giudici si rifiutarono di dar luogo a questa estensione del loro controllo di costituzionalità delle leggi.
Così nel caso Munn v. Illinois (1877), affrontato dalla Waite’s Court, affiorò un tentativo della corte di affermare la legittimità della regolamentazione statale, in nome del “public interest”.
Questa propensione diventò ancor più solida nel celebre “Santa Clara case” del 1886, in cui la Corte, riconoscendo le ragioni d’una multinazionale, designò le “economic corporations” come legittime destinatarie degli assunti garantistici del XIV° emendamento: "La corte non desidera ascoltare alcuna discussione sulla questione se la misura contenuta nel Quattordicesimo Emendamento alla Costituzione, che proibisce ad uno Stato di rifiutare a chiunque all'interno della sua giurisdizione la uguale protezione da parte delle leggi, si applichi oppure no a queste compagnie. Siamo tutti dell'opinione che lo faccia.
Le imputate corporazioni sono persone giuridiche incluse nell'intento della clausola nella Prima Sezione del XIV° emendamento alla Costituzione degli Stati Uniti, che proibisce ad uno Stato di rifiutare a chiunque all'interno della sua giurisdizione la uguale protezione delle leggi". Le “economic corporations” venivano dunque elevate al piano del singolo individuo e in virtù di questo si restringeva ancor più la prospettiva di quel “public interest” paventato dal Munn v. Illinois.
Anche se è significativa la risposta data dalla Corte Suprema in uno dei Granger cases del 1876 ad una istanza di applicazione della due process clause: “Sappiamo che il police power è un potere di cui si può abusare; ma ciò non costituisce un argomento contro la sua esistenza. Per ottenere tutela contro gli abusi del legislatore, è alle schede elettorali che il popolo deve ricorrere, e non alle corti.” Il concetto relativo alla due process clause viene approfondito dallo stesso Lambert con riferimento allo studio del giudice Hough. Infatti l’analisi fatta dall’autore mette in evidenza che “sebbene la due process clause sia stata introdotta nella costituzione sin dal 1791 con il V emendamento, i giuristi del periodo precedente alla guerra di secessione non avevano pensato che essa potesse servire ad arginare i primi sconfinamenti del potere di polizia, e generalmente concordavano nel considerare ricompresi nella nozione di due processo of law tutti i meccanismi legali istituiti per l’applicazione del diritto, tutte le azioni giudiziarie condotte secondo regole generali di procedura, senza distinguere se essi avessero origine nell’antico common law o in statutes recenti; e ricorda, inoltre, che all’epoca del suo esordio nell’avvocatura “i richiami al due process erano rari e, ad eccezione del caso dei neri, di esito mai felice, salvo che per gli aspetti procedurali.””
Come d’altronde lo stesso autore ci fa presente nel corso del tempo il potere giudiziario ha rinunciato sotto varie pressioni a questo atteggiamento di riserbo.
Lo stesso giudice Hough è dell’avviso che la tendenza di censore della Corte suprema nei confronti degli Stati si è consolidata tra il 1883 e il 1890. A rafforzare tale opinione vi sono anche gli studi fatti da Dobbyns su le sentenze Davidson v. New Orleans (1877) e Missouri Pacific Ry v. Humes (1885).
Infine, Dobbyns ribadisce il principio della ragionevolezza presente nelle sentenze della Corte nei casi Chicago v. Milwaukee e St Paul Ry v. Minnesota, in cui si trova scritto: “l’esame della ragionevolezza delle leggi che regolano le tariffe ferroviarie è questione eminentemente rimessa all’indagine giudiziale e soggetta al due processo of law per la sua determinazione.”.


3.2 – Un nuovo orientamento della Corte Suprema a partire dal 1890

Dal 1890 in poi vi è, quindi, un nuovo orientamento giudiziario della Corte Suprema che ha condotto ad un enorme numero di ricorsi diretti all’invalidazione giudiziale di leggi sulla base del XIV emendamento. E così nel 1898, che le leggi tributarie, anche relative a materie per le quali è costituzionalmente ammissibile l’imposizione fiscale, possono, se paiono ingiuste o irragionevoli, essere invalidate dall’autorità giudiziaria perché consistenti in una privazione di proprietà compiuta senza legittima procedura legittima. Nel 1897, che qualsiasi statute restringendo o regolamentando la libertà contrattuale dei privati, può essere considerato in contrasto con il XIV emendamento, se le ragioni alla base dell’ostacolo posto al libero gioco del Laisse-faire economico non siano state giudicate sufficienti dalla Corte medesima. Naturalmente, tutto ciò portava, all’inizio del XX secolo, la Corte ad avere uno strumento che gli garantiva l’esercizio di una tutela sul potere legislativo. Tale strumento poggiava su quattro assi essenziali. Il primo costituito dal due process of law, concepito come abilitazione dei tribunali a sanzionare, tra le procedure previste dagli statuti, quelle che paiono loro illegittime; il secondo asse, dal divieto della deprivation of liberty, considerato quale garanzia del cittadino non più solamente rispetto alle costrizioni fisiche come l’incarcerazione, ma contro ogni impedimento al libero esercizio della sua attività economica; il terzo, dal divieto della deprivation of property, riferita non più soltanto all’espropriazione, ma a tutte le limitazioni della proprietà nel suo significato più ampio, comprensivo anche delle forme più diverse della ricchezza acquisita o in via di realizzazione; il quarto, dal divieto, espresso dall’articolo 1, sezione 10 della costituzione, di emanare leggi che indebolissero l’obbligo dei contratti, interpretato nel senso di precludere al legislatore l’ingerenza negli scambi negoziali allo scopo di dosarne o limitarne gli effetti. Oltre a tali assi il potere giudiziario aveva anche due importanti criteri, espressione giuridica di due opposte tendenze politiche di cui la magistratura americana ha tentato la composizione. Il primo fondato sulla ragionevolezza delle misure legislative. In particolare tale giudizio comporta la disamina della conformità di una norma al principio di eguaglianza tenendo conto della variabilità delle situazioni che si possono verificare storicamente e verificando "perché" una determinata disciplina operi quella specifica distinzione; questa disamina, ispirata al rispetto del principio generale di conservazione dei valori giuridici: e di quello dei confini del sindacato di legittimità, non consente apprezzamenti nel merito delle opzioni legislative, pena lo sconfinamento del controllo di legittimità in una verifica di opportunità. Il secondo, invece, costituito dal criterio dell’expediency, cioè dell’opportunità e dell’incidenza economica degli atti legislativi.
A tal proposito Lambert sostiene: “vi è, da una parte, la preoccupazione di contenere lo statute law nei ranghi tradizionali del common law, e di piegarlo alle concezioni individualiste ereditate dal diritto inglese e consolidatesi, in terra americana, durante l’epoca coloniale. (…) D’altra parte la giurisprudenza costituzionale ha dovuto preoccuparsi di permettere l’adattamento progressivo del common law alle esigenze concrete dell’attuale organizzazione sociale e di lasciar proseguire quelle sperimentazioni legislative che le parevano ad un tempo legittime e deliberate con sufficiente cautela e ponderazione.”


3.3 – La resistenza alla legislazione sul lavoro della Corte Suprema Federale e il diritto di associazione sindacale

Lambert inizia a discutere della resistenza alla legislazione sociale dividendo l’argomento principalmente in due sezioni: l’opposizione delle corti statali alla legislazione del lavoro e l’atteggiamento della Corte Suprema federale riguardo al contratto collettivo di lavoro. In merito alla prima sezione lo studioso incomincia con l’analizzare il saggio dedicato da Lynn Barnard al caso della Pennsylvania del 1881.
Infatti, è proprio in quell’anno che il parlamento della Pennsylvania adottò una legge che obbligava le grandi compagnie carbonifere a retribuire i loro dipendenti ad intervalli mensili e con moneta legale degli Stati Uniti, dichiarando nulla ogni contraria stipulazione nei contratti di lavoro come l’imposizione del pagamento d’una parte del salario con buoni d’acquisto. Inizialmente tale norma fu accettata dai tribunali inferiori; successivamente nel caso Godcharles and Co. V. Wiegman (1886) la Corte Suprema della Pennsylvania dichiarò le prime quattro sezioni della legge incostituzionali in quanto come il giudice Gordon sentenziò tendenti ad “impedire a persone sui juris di stipulare i loro contratti.” Malgrado tale sentenza, il parlamento della Pennsylvania tentò per lungo tempo di legiferare sull’argomento cercando di aggirare il responso del 1886 senza però riuscirci. Nel 1901 finalmente il parlamento della Pennsylvania trovò una scappatoia imponendo una tassa proibitiva su tutti quei buoni acquisto, conferiti in pagamento dei salari, che non fossero convertiti in moneta legale entro trenta giorni. Naturalmente molte delle leggi che disciplinano il lavoro hanno avuto lo stesso tormentato iter. È alquanto semplice ed interessante l’argomentazione portata avanti su tale argomento da Lambert che così scrive:“La regola fondamentale del gioco legislativo, che consiste nello scoprire, nella fitta trama del case law costituzionale, le fessure attraverso cui far passare le restrizioni del laisser-faire economico reclamate sia dalle associazioni operaie che dalle leghe dei consumatori ha conferito all’insieme complessivo di questa branca dello statute law americano una fisionomia cauta e timorosa.” L’esempio portato su tale argomentazione è quello dei Workmen’s compensation Acts.
Naturalmente, una simile situazione fu causa in quegli anni di un infruttuoso tentativo d’imbrigliare le magistrature statali. Così, nel 1914 uno statute federale autorizzò la revisione da parte della Corte Suprema federale dei casi, decisi dalle Corti degli Stati, nei quali una legge statale fosse stata dichiarata invalida in quanto contraria alla costituzione o alle leggi degli Stati Uniti. Ma questa riforma non ha prodotto i risultati attesi.
In merito all’atteggiamento della Corte Suprema Federale nei riguardi del contratto collettivo di lavoro, l’analisi di Lambert inizia il suo iter citando un’emblematica e non isolata vicenda dell’indirizzo della Corte Suprema della Reconstruction nota come il caso Lochner v. New York[2][33] (1905): infatti, la Corte in tale occasione invalidò una legge a difesa dei salari e di un umano orario di lavoro nei panifici, giustificandosi con la presunta tutela della libertà contrattuale dell’azienda[3][34]. Tutto ciò per affermare come l’assoggettamento della giurisprudenza della Corte Suprema Federale non è sempre stato all’insegna dell’uniformità e della moderazione. Successivamente, lo studioso, seguendo l’analisi fatta da Reed Powel, ha appurato come la Corte Suprema Federale abbia dato un colpo di freno alla legislazione sul contratto collettivo con tre sentenze, frutto d’una Corte divisa e di maggioranze limitate. In particolare si fa riferimento alle sentenze Adair v. United States (1908), Coppage v. Kansas (1913) e Hitchman Coal and Coke Co. v. Michell and al. (1917). Attraverso il confronto di queste tre sentenze Lambert ha, quindi, verificato l’atteggiamento dei tribunali prevalentemente indirizzato verso una missione sociale ed economica. A supporto di tale considerazione viene citata la sentenza Adams v. Tanner, il Child labor law case (1918), la sentenza Wilson v. New et al. (1917), la sentenza Stettler v O’Hara nell’Oregon minimum wage case.
L’analisi fatta da Lambert risulta importante per capire principalmente l’atteggiamento della maggioranza in seno alla Corte Suprema nei confronti della legislazione del lavoro. E così attraverso la divergenza tra le opinioni costituzionali dei giudici si è giunti al meccanismo di verifica giudiziaria della costituzionalità di tale legislazione.
Anche se in un quadro generale di diritto del lavoro non meno importanti sono alcune sentenze scaturite in seguito a regolamentazioni e razionalizzazioni del sistema economico.
Per comprendere ancor meglio l’intensità con cui la CorteSuprema ha agito in tale disciplina sarà utile ritornare per un attimo al 1890. Infatti, nel corso di quest’anno, proprio attraverso lo Sherman Antitrust Act, gli Stati Uniti si erano dotati di legge che dichiarava illegale qualsiasi accordo collusivo tra imprese e rendeva sostanzialmente eccessiva una utilizzazione per così dire strumentale del diritto del lavoro. E’ noto peraltro come lo Sherman Act fosse stato originariamente utilizzato anche in funzione repressiva dell’associazionismo sindacale: oggetto di contrastanti decisioni da parte delle Corti federali di grado inferiore, la questione della applicabilità della disciplina antimonopolistica al sindacato venne affrontata dalla Corte Suprema degli Stati Uniti per la prima volta nel caso Loewe v. Lawlor del 1908. In questa decisione la Corte Suprema, una volta premesso che «il testo della legge non pone distinzioni di classi», ma anzi dichiara illecito «ogni contratto, associazione o accordo diretto a limitare il commercio», non esitò infatti a ritenere riferibile la legislazione antitrust anche al lavoro organizzato; è evidente la diversa portata che, in questo quadro legale, avrebbe potuto assumere il principio secondo cui «il lavoro non è una merce»: più che giustificare il monopolio pubblico del collocamento esso avrebbe invece finito con il legittimare quantomeno di fatto il monopolio sindacale sul mercato del lavoro. Ed in effetti, il «Clayton Antitrust Act» del 15 ottobre 1914, nell’emendare il testo dello «Sherman Antitrust Act», recepì integralmente il suddetto principio tanto da far parlare della legislazione antimonopolistica come della Magna Charta del lavoro. L’art. 6 del «Clayton Act» affermava testualmente: «il lavoro di un essere umano non è né una merce né un articolo di commercio. Niente di quanto è previsto nelle leggi antimonopolistiche deve essere interpretato nel senso di proibire la costituzione e l’attività delle associazioni dei lavoratori (…) costituite a fini di reciproco aiuto purché prive di capitale azionario e non dirette a scopo di lucro; o di vietare alle persone iscritte a queste associazioni di perseguire lecitamente i loro obiettivi. Le predette associazioni e i loro membri non potranno essere ritenute associazioni illecite o cospirazioni miranti ad interferire nelle attività commerciali, ai sensi della legislazione antimonopolistica»; l’art. 6 del «Clayton Antitrust Act» si rivelò ben presto una «formula vuota», e in ogni caso facilmente “manipolabile” da una giurisprudenza poco incline ad assecondare gli interessi del lavoro.
Chiamata a pronunciarsi sulla liceità di un boicottaggio realizzato nei confronti di una impresa dedita al commercio interstatale che rifiutava la stipulazione di un «closed shop agreement» con il sindacato, la Corte Suprema degli Stati Uniti, nel celebre caso Duplex Printing Press Co. v. Deering del 1921, non esitò infatti a precisare che il «Clayton Act» si limita ad affermare che «le associazioni sindacali in quanto tali non possono essere considerate — a causa della loro esistenza o attività — alla stregua di associazioni illecite» ai sensi delle legislazione antimonopolistica: altra cosa, invece, è giudicare della liceità del loro operato che rimane infatti soggetto alla normativa antitrust.
I tribunali inoltre continuavano a convalidare il cosiddetto contratto maledetto che impegnava l’operaio a non iscriversi ad un sindacato se teneva al posto, come pure approvavano le ingiunzioni di legge contro gli operai alle quali spesso ricorrevano gli industriali per impedire gli scioperi.
Robert La Follette, celebre governatore democratico radicale del Wisconsin, promotore di un programma di severe riforme che affrancandosi da un’assemblea legislativa spesso restia, riuscì a dare un regolamento efficace alle ferrovie, stabilì imposte sui redditi e sulle eredità, pose limiti alla corruzione e alle manovre di corridoio, regolamentò banche e compagnie d’assicurazione, limitò le ore di lavoro di donne e bambini, adottò il sistema meritocratico negli impieghi pubblici e le elezioni primarie per la scelta dei candidati di partito, non ebbe difficoltà a definire la Corte Suprema del periodo come la “vera padrona del popolo Americano”, invitando apertamente il Congresso ad assumersi il potere di rendere di nuovo valide le leggi annullate dalla stessa. Lo sfogo del politico evidentemente rifletteva una situazione non più tollerabile, in cui la frizione tra il conservatorismo della Corte suprema e le richieste d’una società più dinamica si faceva sempre più forte e pressante.
La stessa mentalità liberale che coniava la società americana dalla sua nascita sembrava assurgere a gretta ideologia e soprattutto giunse a soffocare ogni minima pulsione morale e solidale. Lo stesso Arthur Schlesinger ne la sua “Età di Roosevelt” non esita a definirli anni di delirio collettivo, in cui perfino il presidente della Corte Suprema nel 1922 poteva affermare: “Ogni tanto è giusto porre un freno alle aspirazioni del sindacato”.
Fu solo superando numerose resistenze che la giurisprudenza americana si astenne nel corso del tempo dall’utilizzare le «antitrust laws» in funzione antisindacale; una volta riconosciuto che il diritto di associazione sindacale è esso stesso un corollario del dogma della libera concorrenza, in quanto strumento per bilanciare i fattori che determinano il potere contrattuale, era peraltro naturale assegnare al contropotere sindacale anche un ruolo di primo piano nella razionalizzazione del sistema produttivo. Come nei Paesi a tradizione «étatiste» il diritto del lavoro nasce per sottrarre il lavoro alla concorrenza, così nel sistema americano saranno le clausole di sicurezza sindacale a svolgere una funzione analoga rendendo (anche per questo motivo) superflua una disciplina legale inderogabile dei rapporti di lavoro. Da questo particolare punto di vista, ben poco cambierà con la normativa di sostegno del sindacato e della contrattazione collettiva delineata nel «Wagner Act» del 5 luglio 1935: normativa che, non a caso, troverà il suo fondamento costituzionale nella clausola sull’interstate commerce (art. 1, sezione 8), e cioè nell’obiettivo del legislatore federale di contenere se non eliminare le cause di conflitto tra lavoratori e imprenditori che ostacolano il commercio tra uno Stato e l’altro dell’Unione.


Lo Stato di diritto nell’esperienza americana: il ruolo della Corte Suprema nel controllo della costituzionalità delle leggi

Romano Pesavento
giornalista pubblicista
J. Marshall e l’affermarsi del ruolo della Corte Suprema degli Stati Uniti


2.1 Marbury contro Madison 1803

Il processo Marbury v. Madison fu uno dei casi più importanti nella storia della giurisprudenza statunitense; infatti, la sentenza che fu pronunziata dalla Corte Suprema degli Stati Uniti nel 1803 stabilì il principio del controllo giudiziario della costituzionalità delle leggi, anche federali, ed instaurò il sistema del judicial review esercitato dalle corti americane. I fatti che costituirono l’oggetto di tale controversia meritano di essere illustrati.
Il 4 marzo 1801 Thomas Jefferson, l’educato colono della Virginia e appartenente al partito democratico repubblicano, fu eletto presidente degli Stati Uniti e succedette al presidente “federalista” John Adams.
Nonostante, Jefferson desse inizio al suo mandato con un appello all’armonia (“Siamo tutti repubblicani, siamo tutti federalisti” dichiarò nel suo discorso inaugurale) sin dai primi periodi cominciò a dichiarare guerra al potere giudiziario federale.
Nel 1801, in prospettiva di tale situazione, i federalisti avevano cercato di trasformare il sistema giudiziario in una loro roccaforte attraverso l’approvazione di alcune riforme strategiche (Judiciary Act del 1801)[1][18]. Nel contempo Adams procedette a due nomine: nominò il suo segretario di Stato (parificabile al nostro Ministro degli Esteri), John Marshall, giudice in capo (Chief Justice) della Corte Suprema degli Stati Uniti, e nominò un altro membro del suo partito, William Marbury, ad una carica assai modesta di “Justice of the peace” della contea di Washington, nel Distretto federale della Colombia (si tratta delle cosiddette nomine di Mezzanotte).
La Corte Suprema con a capo Marshall, il quale, ironia della sorte, era dello stesso partito del piccolo giudice (in fieri) Marbury, si trovò ad esaminare quindi i seguenti problemi: “Primo: il ricorrente ha un diritto al conferimento dell’incarico da lui richiesto? Secondo: Se ha un diritto, e questo diritto è stato violato, le leggi del suo paese gli offrono un rimedio? Terzo: Se gli offrono un rimedio, è questo rimedio un’ordinanza emessa da questa Corte?” (Marbury v. Madison, 1 CRANCH 137 (1803))
Naturalmente, il nodo fondamentale che si delineava chiaramente davanti ai giudici era il seguente: la Costituzione degli Stati Uniti d'America non riconosceva alla Corte suprema la competenza di giudicare in casi simili a questo ("In tutti i casi che riguardano un ambasciatore, altri rappresentanti pubblici e consoli, ed in cui è parte uno Stato, la Corte Suprema deve avere giurisdizione di primo grado. In tutti gli altri casi (...) la Corte Suprema avrà giurisdizione d'appello, sia in diritto sia in fatto, con le eccezioni e secondo le regole che il Congresso stabilirà." art. 3, sec.2); mentre esisteva una legge federale votata nel 1789 (Judiciary Act) la quale assegnava la competenza di emettere «Writs of Mandamus» nei confronti di chi esercita il potere in nome degli Stati Uniti d'America.
Si precisa che Marshall era in una situazione in cui aveva la forte necessità di accrescere la credibilitá sua e della corte e decidere a favore di un suo compagno di partito, in qualunque caso, avrebbe costituito un atto rischioso per la sua già fragile posizione.
Il 24 febbraio 1803 fu emessa la sentenza ad unanimità della Corte che risultò decisamente a sfavore di Marbury e che conteneva due elementi fondamentali.
Il primo consisteva nel riconoscere il diritto di nomina a Marbury e quindi il diritto a ricevere la comunicazione. Infatti, troviamo scritto: “E’ quindi, opinione della Corte: Primo: che nel momento in cui ha firmato il conferimento dell’incarico del Sig. Marbury, il Presidente degli Stati Uniti lo ha nominato giudice di pace della contea di Washington, nel Distretto della Colombia; e che il sigillo degli Stati Uniti, apposto dal Segretario di Stato, costituisce testimonianza conclusiva della veridicità della firma e della completezza della nomina; e che la nomina gli conferisce il diritto legittimo a rivestire quell’incarico per la durata di cinque anni. Secondo: che avendo questo titolo legale all’incarico, ha un conseguente diritto al conferimento dell’incarico; e un rifiuto di consegnare questo incarico costituisce una chiara violazione di quel diritto, per la quale le leggi del suo paese gli offrono un rimedio.” (Marbury v. Madison, 1 CRANCH 137 (1803))
Il secondo, invece, affermava che la Corte Suprema non era competente a rilasciare il decreto di ingiunzione. La clausola della legge giudiziaria del 1789, in base alla quale Marbury aveva intentato causa, era contraria alla Costituzione e di conseguenza non valida.
La considerazione si basava sul fatto che se la Costituzione si pone in una posizione gerarchica superiore rispetto alla legge (l'art. VI della Costituzione americana è stato interpretato in questo senso), la legge non può contravvenire a quanto disposto dalla Costituzione e, se questo accade, la legge deve essere privata dei suoi effetti.
Per usare le parole della sentenza: “il popolo ha il diritto originario di stabilire, per il suo futuro governo, quelle regole che ritiene adeguate al conseguimento della felicità [ ... ma... ] i poteri delle camere legislative sono definiti e limitati; la Costituzione è stata posta per iscritto per evitare che questi poteri siano mal compresi o dimenticati. [...] O la Costituzione è una legge superiore prevalente, non modificabile con gli strumenti ordinari, oppure è posta sullo stesso livello della legislazione ordinaria e, come le altre leggi, è alterabile quando il legislatore ha piacere di alterarle. Se la prima parte dell'alternativa è vera, allora una legge contraria a Costituzione non è legge; se la seconda parte è vera, allora le Costituzioni scritte sono un tentativo assurdo, da parte del popolo, di limitare un potere per sua stessa natura illimitabile.” (Marbury v. Madison, 1 CRANCH 137 (1803))
Il controllo giudiziario di costituzionalità delle leggi si è così introdotto senza scontri di nessun tipo in America, in occasione di una causa dove, lungi dal pretendere di affermare la sua supremazia, la Corte suprema giudicava incostituzionale una legge che le conferiva certi poteri.
La sentenza Marbury v. Madison, per giunta, dava soddisfazione al potere esecutivo. Si capisce come quest’ultimo non abbia protestato contro il principio, pur ricco di implicazioni per l’avvenire, che veniva in tal modo consacrato.
Di questo principio fu fatto, durante il XIX secolo, un uso assai moderato, di modo che esso, nella sostanza, non venne mai seriamente discusso negli Stati Uniti. Esso costituisce, ai giorni nostri, una delle differenze più cospicue che esistono fra la struttura costituzionale americana da una parte, e quella inglese dall’altra.


2.2 - John Marshall, l’uomo e la sua formazione politica

Sicuramente, tra i personaggi politici più importanti della storia del diritto degli Stati Uniti merita un posto di riguardo il convinto federalista virginiano John Marshall. Nato vicino a Germantown da Thomas Marshall e Mary Randolph Keith. Le sue origini sociali, come del resto quelle di altri illustri personaggi, avevano radici nel vasto ceto della classe media. Il suo bisnonno sembra sia stato carpentiere. Durante la guerra di indipendenza servì Continental Army e divenne amico di George Washington, fu tenente dal 1775 sino al 1780. Vinse poi un seggio nel 1782 nella Virginia House of Delegates (una delle due camere, per la precisione la camera bassa dell'assemblea generale della Virginia). Per i suoi gusti e i suoi modi, Marshall vestiva semplicemente, faceva lui stesso la spesa al mercato, amava le carte, i liquori e le allegre partite di ferri da cavallo o di piastrelle. Ma, per le sue tendenze politiche, rappresentava piuttosto i circoli affaristici e professionali di grandi centri come Boston e New York. E alcune sue memorabili decisioni, frutto di uno spirito acuto, mostrano che egli era dominato da due principi cardinali: la sovranità del governo federale e la sanità della proprietà privata.
Lontano parente di Jefferson, che lo detestava al pari della sua politica, Marshall rimase presidente della Corte Suprema fino al 1835, un quarto di secolo dopo il ritiro di Jefferson dalla vita pubblica. Di conseguenza, mentre il partito federalista non vinse più alcuna elezione nazionale, i principi costituzionali del federalismo continuarono a essere sostenuti dalla Corte Suprema per un periodo corrispondente al mandato di cinque presidenti. Per di più Marshall doveva dimostrare un’influenza decisiva nello sviluppo della legge costituzionale americana.
Come sappiamo non era un giurista, ma un politico e, non avendo nessuna esperienza giuridica, aveva la forte esigenza, da una parte di dare credibilità a se stesso quale presidente della Corte e, dall'altra, di dare credibilità alla Corte stessa, la quale era stata resa operativa solo pochi anni prima (1789) con l'entrata in vigore della nuova Costituzione.
Con un’audacia temperata dall’abilità ampliò di molto la giurisdizione della Corte Suprema trasformandola in un qualcosa che era più di un organo di coordinamento governativo. Contemporaneamente ampliò i poteri federali a scapito di quelli statali.
Le sue sentenze erano stilate con una logica magistrale, che in quasi tutti i casi lasciava convinto l’ascoltatore; semplici nello stile, erano caratterizzate da un forte sapere e da una approfondita analisi. Usava fissare prima le premesse più importanti, passare poi alle deduzioni, demolendo tutte le obiezioni, e trarre infine le conclusioni, ampiamente sostenute da citazioni e illustrazioni.
Nell’esame di una cinquantina di casi che esigevano chiare decisioni costituzionali, s’ispirò sempre a una ben matura filosofia politica. E, poiché essi si riferivano a quasi tutte le parti importanti della Costituzione, questa, al termine del suo lungo ufficio, finì con l’essere applicata dai tribunali di tutto il paese in gran parte secondo l’interpretazione che egli ne aveva data.
Ed ecco le sue principali decisioni. Nel caso Marbury contro Madison (1803), già esaminato, egli sancì, definitivamente, il diritto della Corte Suprema di rivedere qualsiasi legge, sia del Congresso sia delle assemblee statali. “È indiscutibili competenza e dovere del dipartimento giudiziario dire che cos’è legge”. Nel caso Cohens contro Virginia (1821) demolì gli argomenti di coloro che sostenevano doversi considerare definitiva la sentenza di una Corte statale in controversie sorgenti nell’ambito di leggi federali. Mettendo anzi in rilievo la confusione che tale principio avrebbe ingenerato nel paese, - perché ogni singolo stato avrebbe avuto proprie particolari opinioni in fatto di validità di leggi nell’ambito della Costituzione o dei trattati federali -, egli insisté perché il giudizio definitivo fosse quello delle Corti federali.
Nel caso McCulloch contro Maryland (1819) trattò l’annosa questione dei “poteri impliciti” del governo nell’ambito della Costituzione, prendendo coraggiosamente la difesa della teoria hamiltoniana, secondo la quale la Costituzione conferisce implicitamente al governo poteri che essa non stabilisce in modo specifico. Nel caso Gibbons contro Ogden (1824) Marshall estese il potere del Congresso di regolamentare il commercio ad ogni attività che avesse un impatto interstatale, anche se indiretto, con la conseguenza che restavano escluse solo le materie di interesse meramente interno. L’importanza di tale interpretazione consiste nel fatto che il giudice Marshall fu il primo ad elaborare il concetto di externalities, inteso come conseguenza dell’attività di un individuo che può avere un’influenza positiva (“beneficio”) o negativa (“costo) sull’attività di un altro individuo. Ad esempio, i programmi di aggiornamento nell’industria erano considerati dei “benefici”, in quanto aumentavano il livello culturale degli impiegati. Al contrario, l’inquinamento prodotto dall’industria
era considerato un possibile “costo”. La presenza, dunque, di externalities giustificava l’intervento dello Stato centrale nel libero mercato nel caso in cui esse producevano “benefici”, e legittimava il passaggio dei poteri decisionali dai livelli di governo più bassi a quelli più elevati. La Costituzione dava al Congresso il diritto di regolare il commercio interstatale; e, in caso derivante da una disputa circa i diritti dei piroscafi sul Hudson, Marshall sentenziò che questo diritto di regolamentazione nazionale dovesse essere interpretato in maniera lata, e non ristretta. Nel caso del Collegio di Dartmouth contro Woodward, Marshall applicò ai contratti la clausola della Costituzione per sostenere la intangibile validità di una carta di associazione e negò, di conseguenza, agli atti il potere di modificarla. Nel complesso, Marshall non fu inferiore a nessuno sull’opera di rendere il governo centrale del popolo americano una forza viva e crescente.

2.3 – McCulloch contro Maryland (la teoria dei poteri impliciti)

Il nazionalismo acceso che ispirava “il sistema americano” fu affermato ancor più nettamente dalla Corte Suprema. In una serie di importanti sentenze, il presidente della Corte Suprema Marshall prese posizione contro coloro che sostenevano che il potere federale doveva essere rigidamente limitato.
Quella più famosa fu pronunciata nella causa McCulloch contro Maryland del 1819. Lo stato del Maryland aveva tentato di ostacolare il funzionamento di un ramo della seconda banca degli Stati Uniti (banca fondata per affrontare le difficoltà incontrate da parte dell'amministrazione del presidente degli Stati Uniti d'America James Madison, 4° presidente).
Il Maryland chiedeva la sua incostituzionalità, ma in precedenza aveva imposto una tassa proibitiva per l'epoca a tutte le banche che emettevano banconote non autorizzate da quello Stato. James McCulloch, che ricopriva la massima autorità per quanto riguarda il ramo di Baltimora della seconda banca degli Stati Uniti, si rifiutò di pagare la tassa. Iniziò una causa fra lo stato e McCulloch che venne inizialmente presentata innanzi a John James, e poi davanti alla Corte d'Appello del Maryland finendo poi alla corte suprema.
Marshall fece riferimento alla teoria hamiltoniana dei “poteri impliciti” della Costituzione e affermò inoltre che il governo nazionale era pienamente sovrano nella propria sfera e non semplicemente una creatura degli stati.
In questa causa fu ritenuto che l’istituzione di una banca, per quanto non specificatamente autorizzata dalla Costituzione, era comunque implicita nella concessione di poteri fiscali al congresso, come previsto dall’Art. I s. 8.
D’altronde, nell’esercitare i suoi poteri costituzionali, il congresso poteva adottare tutti i mezzi appropriati che non fossero esplicitamente vietati dalla Costituzione. Gli stati non avevano dunque alcun diritto di ostacolare l’esercizio dei poteri costituzionali da parte del governo federale. Di conseguenza la Banca, come ente federale legittimo, non poteva essere sottoposta a regolamenti statali.
In definitiva, secondo Marshall, il ricorso ai poteri impliciti doveva essere, quindi, limitato alla sussistenza di due condizioni:
a) il fine doveva essere legittimo, vale a dire previsto dalla Costituzione;
b) i mezzi dovevano essere adeguati al raggiungimento di tale fine e non vietati dalla Costituzione stessa.
“Non dobbiamo mai dimenticare, disse il giudice in capo Marshall, che è una Costituzione quella che noi interpretiamo… Costituzione destinata a durare per secoli e che deve, quindi, essere adattata alle diverse crisi delle vicende umane…”. La Costituzione degli Stati Uniti è legge fondamentale che fissa le basi stesse della società. Non è possibile trattarla alla pari delle altre leggi, che cercano di completare o rettificare un diritto di natura giurisprudenziale mediante la formulazione di regole di dettaglio. Dominando l’edificio della common low, la Costituzione degli Stati Uniti è una legge di tipo romanista, che non mira in via primaria a risolvere controversie, ma che pone regole generali di condotta e i organizzazione destinate ai governanti e agli amministratori. La Costituzione degli Stati Uniti è stata quindi interpretata, per principio, con grandissima elasticità. Tutto lo sviluppo del diritto degli Stati Uniti, la distinzione fra diritto federale e diritto degli Stati, la storia stessa degli Stati Uniti, sono stati guidati dall’interpretazione data dalla Corte suprema ad alcune formule della Costituzione degli Stati Uniti.