giovedì 16 aprile 2009

Crotone&Economia 6

Mezzogiorno e teorie dello sviluppo economico: ne parliamo con Francesco Aiello, docente presso l’Università della Calabria

Economie meridionali: la soluzione sta nelle politiche strutturali



di Romano Pesavento

Anche questa settimana continuiamo a parlare di sviluppo economico e Mezzogiorno, facendo, inoltre, riferimento a temi molto attuali come la crescita e la convergenza economica.
Come si sa le regioni italiane stanno oggi divergendo: molti sono gli studiosi che cercano di analizzare la data di inizio del processo di tale fenomeno che è tutt’ora in atto. Per tanti il processo di convergenza non si interrompe nel 1975, ma quattro anni prima; ciò implica che le cause del processo di divergenza non devono essere ricercate in shock esterni al sistema economico, ma alla struttura economica stessa delle regioni meridionali, non in grado di reagire al pari della circoscrizione settentrionale a questi shock.
Per tal motivo alcuni di questi studiosi pensano che il processo di crescita e sviluppo delle regioni meridionali non sia destinato a riprendere nell’immediato futuro, anche perché le posizioni di lungo periodo delle economie regionali differiscono. In altri termini, le posizioni di lungo periodo sono differenti a causa di una persistente differenza tra le strutture economiche del Nord e del Sud d’Italia.
Più in particolare, tali opinioni suggeriscono sia che il settore pubblico ha in mano alcuni strumenti per influenzare la distribuzione della ricchezza tra le regioni italiane, e sia che il concentrarsi su variabili quali l’assenza di capitale umano può distogliere attenzione e risorse dai veri problemi dell’economia meridionale: l’incapacità di assorbire nuova forza di lavoro e un ritardo nella produttività totale dei fattori.
Per approfondire tali tematiche, ci siamo rivolti al prof. Francesco Aiello dell’Università della Calabria.
In questi ultimi anni si parla molto di crescita economica ed in particolare dei problemi connessi, ci puoi fornire qualche indicazione?
"Da quasi due decenni, la teoria economica ha riscoperto i problemi della crescita economica. I motivi di questa riscoperta sono noti e dibattuti: da un lato si tratta di una rincorsa della teoria economica dominante a quei filoni di ricerca - postkeynesiano e marxista - che, non avendo mai abbandonato questo terreno, avevano raggiunto un elevato livello di perfezionamento; da un altro lato molti erano e restano i problemi irrisolti dello sviluppo: resta da risolvere il problema del decollo di un’area; resta da capire perché e come un’area si sviluppa e un’area contigua invece possa restare arretrata; resta da risolvere il problema della disoccupazione di massa degli anni ’90 e della crescita rallentata.
Contemporaneamente, lo sviluppo dell’analisi matematica ed economica consente nuovi e più raffinati processi di endogenizzazione. Si può ora agevolmente formalizzare con gli strumenti tipici dell’analisi economica neoclassica il progresso tecnico, l’accumulazione di capitale umano, l’effetto sulla crescita delle politiche economiche, tutti fattori che le formulazioni precedenti lasciavano come esogenamente determinate. Infine, esiste una diffusa insoddisfazione verso la modellistica di crescita ortodossa, ritenuta prevedere che le economie dovessero convergere allo stesso livello di reddito pro capite, mentre si manifestava, per tutti gli anni ‘80 e ‘90, una tendenza crescente alla diseguaglianza tra la parte ricca e quella povera del mondo.
Questo insieme di motivi ha spinto i ricercatori della crescita da un lato a cercare nuove formulazioni dei modelli di crescita e, da un altro lato, ad analizzare con nuove tecniche econometriche se le economie mondiali stiano convergendo allo stesso livello di reddito pro capite o se, almeno, vi siano segnali di un imminente processo di convergenza. Durante la seconda metà degli anni ‘80, soprattutto grazie ai lavori di Abramowitz nel 1986 e Baumol nel 1986, la questione della convergenza ha raggiunto il centro del dibattito della teoria della crescita. In questo dibattito, il nodo centrale è quello di analizzare se una serie di economie che presentano differenti livelli iniziali di reddito pro capite tendano a convergere, nel loro processo di crescita, al medesimo livello di reddito pro capite oppure se il processo di crescita delle economie avanzate sia tale da aumentare i divari esistenti."
Questo dibattito si è svolto sia a livello teorico che empirico?
"Si, dal punto di vista teorico, il riconoscimento del fatto che le economie mondiali non hanno mostrato alcuna tendenza di convergenza, specialmente negli ultimi due decenni ha portato i teorici della crescita ad abbandonare il modello di Solow 1956, e a proporre una serie di modelli ritenuti più conformi alle dinamiche osservate Solow 1994. Nasce cosi il filone teorico della crescita endogena, espressione con cui si indica quell’insieme di modelli che tenta di spiegare i meccanismi che l’accumulazione di alcune delle determinanti della crescita sottende e che nella formulazione originaria erano presi come esogeni. Dal punto di vista empirico, una impressionante serie di lavori ha sviluppato numerose e differenti tecniche econometriche, tutte volte a studiare e caratterizzare il processo di convergenza delle economie mondiali.
Ad oggi, questo problema non è ancora risolto. Gli studiosi che lavorano con il modello di Solow sullo sfondo, mostrano che è in atto lento processo di convergenza Barro e Sala-ì-Martin 1991, 1992, 1996. Di contro, la maggioranza di lavori empirici è a favore di una totale assenza sia di un processo di convergenza, che di segnali sia pur minimi che lascino intendere che tale processo si manifesterà in un prossimo futuro: Ben-David nel 1994, Canova e Marcet nel 1995, Barnard e Durlauf nel 1996, Durlauf e Jonhson nel 1996, Quah nel 1997 e Bianchi nel 1999."
Molti di questi strumenti sono stati utilizzati per studiare i motivi del dualismo esistente tra le regioni italiane ad esempio, Barro e Sala-i-Martin 1991, Del Monte e Giannola 1997, Terrasi 1999.
"È vero, alcune conclusioni di questa serie di lavori sembrano universalmente accettate: ad esempio, si sa che il Nord e il Sud d’Italia stanno divergendo; inoltre, si fa risalire l’inizio di questo periodo di divergenza al 1975 e, infine, le cause di questo processo di divergenza sono individuate nello shock petrolifero del 1973."
A questo punto, riflettendo sul caso italiano, come pensi possa essere raffigurato alla luce delle più recenti teorie?
"Il caso italiano deve essere pensato come un caso di equilibri multipli di steady state. Questi equilibri multipli insorgono durante gli anni ‘60, in pieno processo di sviluppo del sistema economico nazionale, e mentre la dinamica delle regioni sembra seguire, almeno a prima vista, le previsioni di un modello a là Lewis. Secondo questo autore, il fatto che una parte del sistema economico complessivo si sviluppi prima di un’altra, ha sempre risvolti positivi su tutto il sistema, dal momento che la parte in ritardo può seguire le linee di sviluppo intraprese dalla parte sviluppata.
Invece, durante questi anni le differenze che si formano tra il sistema produttivo del Nord e del Sud d’Italia divengono nette. Si formano, in particolare, due sistemi economici a differente potenziale di crescita, e in grado di rispondere in maniera differente agli shock esterni.
Il processo di convergenza tra le circoscrizioni territoriali si ferma nel 1971, cioè quattro anni prima rispetto al 1975, anni in cui si fa convenzionalmente terminare il processo di convergenza tra in Nord e il Sud dell’Italia. Ciò chiaramente riapre la discussione circa le cause dell’inizio del processo di divergenza, che era individuato nello shock petrolifero del 1973. Questo shock, essendo datato alcuni anni dopo rispetto alla fine del processo di convergenza, può aver avuto l’effetto di rinforzare la dinamica di divergenza, ma non esserne la causa primaria."
Qual è a riguardo la tua opinione?
"La mia opinione è che la causa va ricercata proprio nel tipo di crescita “bifronte” che le regioni hanno sperimentato durante gli anni ‘60. Questo tipo di sviluppo rende possibile la differenza nella risposta dei due sistemi economici a qualunque shock, quale può essere stata l’imposizione del salario unico che seguì il 1969, o lo shock petrolifero del 1973. Ma il punto è che gli shocks sono la regola, non l’eccezione dello sviluppo delle economie industriali moderne. Una volta giunti a questo stadio dello sviluppo, l’economia meridionale ha reagito in maniera molto differente rispetto al Nord d’Italia, perdendo posizioni relative nella distribuzione dei redditi.
La tendenza alla divergenza delle circoscrizioni italiane è una tendenza sia storica che futura, come dimostrano sia le stime relative ai kernel stocastici che le stime relative alla distribuzione di equilibrio prevista dalla teoria economica. La distribuzione di equilibrio risulta bimodale per tutti i modelli che abbiamo utilizzato. Questa è una prova del fatto che le economie meridionali non sono in ritardo perché in disequilibrio: queste economie sono strutturalmente differenti dalle economie settentrionali, e questa struttura consente un livello di produttività totale dei fattori e di occupazione sensibilmente minori.
Questo è esattamente il motivo per cui il problema delle economie meridionali non è un problema transitorio, e rappresenta anche il motivo per cui la soluzione del problema non può che ricercarsi in politiche strutturali.
Sempre per la stessa ragione, inoltre, il futuro delle economie regionali è un futuro di divergenza. La distribuzione corrente mostra che la posizione delle mode è più vicina rispetto alla posizione delle mode in equilibrio. Per questa ragione le economie regionali, nel tendere verso la propria posizione di equilibrio, divergono. Questa previsione, valida per il 1995, è stata testata utilizzando le osservazioni per il 1999; questo esercizio conferma il pessimismo che deriva dalla nostra analisi.
Tra le cause del processo di divergenza devono essere poste, e questa non è una novità, tanto la produttività totale dei fattori, quanto la scarsa capacità delle economie regionali di assorbire nuova occupazione. Tra di esse, e questa rappresenta una novità, dovrebbero essere esclusi tanto i ragionamenti relativi al capitale umano quanto le osservazioni fatte circa la migrazione delle forze di lavoro. Se è vero che i modelli utilizzati tendono a sottovalutare l’effetto delle migrazioni sul reddito pro capite, ciò non vale per il capitale umano: nella nostra analisi non c’è traccia di un effetto positivo del capitale umano nell'influenzare la distribuzione di equilibro.
Di fronte a questi problemi, il settore pubblico non ha attuato politiche economiche efficaci, pur avendone la possibilità. Le politiche di acquisti pubblici non ha avuto effetti rilevanti; le politiche dei lavori pubblici hanno avuto un effetto positivo durante gli anni ‘70; questo effetto positivo si è attenuato fino ad estinguersi."
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Pubblicato su La Provincia KR, settimanale di informazione e cultura, Anno XIII n. 10 del 11/03/2006

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