sabato 18 aprile 2009

Crotone&Economia 9

A scuola di distretto con il prof. Leone Leonida dell’Università Queen Mary


Le imprese nel crotonese sono scarsamente integrate fra di loro


di Romano Pesavento

Nell’economia neocapitalista esistono due importanti approcci alle politiche di sviluppo regionale. Il primo di tipo protezionistico reputa necessari interventi economici a difesa delle regioni più deboli salvaguardandole dalla competitività internazionale. Esso teorizza una politica regionale tesa a concentrare i propri sforzi nel favorire grossi trasferimenti di natura finanziaria dalle regioni più sviluppate a quelle meno sviluppate, al fine di ridurre i costi dei fattori e di sostenere la competitività di prezzo delle imprese. Questa politica sostiene che tra i principali problemi presenti nelle regioni arretrate vi è la mancanza di lavoro qualificato. Da ciò ne consegue che egli strumenti adoperati sono principalmente basati su: sussidi alle imprese, trasferimenti alle famiglie etc..
Il secondo approccio nato sul finire degli anni ’80 e sostenuto da economisti come Konsolas N., Scott A.J., Storpe M., Vazquez Barquero A., Biehl D., basa le proprie teorie di sviluppo regionale su modelli di tipo endogeno e a rete.
Tali teorie presuppongono che tra i problemi delle aree arretrate vi sia un’assenza di imprenditorialità, di innovazione, di know how specifico e di internazionalizzazione. La strategia è quella di orientare la politica regionale al mercato e ai criteri di efficienza economica. Si ha quindi come obiettivo principale quello della diminuzione dei costi di aggiustamento e di transazione. Per raggiungere tali scopi si ipotizzano strumenti quali una maggiore offerta di servizi alle imprese, una cooperazione interregionale e politiche di strategie territoriale. Teorie ancora più avanzate si hanno nella modellistica di Krugman J., Fujita M. e Mori T.. Lo stesso Krugman prende in esame la perifericità in cui molte aree arretrate si trovano rispetto ai mercati internazionali e le particolari curve dei costi di transazione dalle quali traspare l’impossibilità per tali zone di competere.
Da tali teorie si constata che generalmente dove ci sono economie di scala prevalgono di solito forze di concentrazione.
A tal proposito considerando il caso della Calabria e consci di alcune ricerche svolte sul territorio regionale ci siamo rivolti al prof. Leone Leonida della Queen Mary, University of London.
D: Si parla molto di distretti. A volte li vedono anche dove non ci sono. Una delle loro caratteristiche è l’integrazione tra imprese. Come vanno le cose nelle zone che hai studiato?
R: Nella letteratura sui distretti si fa riferimento in generale a una forte integrazione tra le imprese. Spesso i distretti sono definiti in base a un prodotto, alla specializzazione delle imprese o sul prodotto finito o su componenti dello stesso. L’integrazione, inoltre, si esprime anche con la diffusione delle innovazioni e delle informazioni. Applicando queste definizioni al nostro sistema siamo ben lontani dall’esistenza di distretti, ma anche dalle possibilità di sviluppo. Ma questo in un certo senso ci impedirebbe anche di spiegare qualche risultato, soprattutto per quel che riguarda le imprese di successo.
Anche in questi casi infatti le imprese sono scarsamente integrate tra loro (manifestano, ad esempio, una forte dipendenza dall’esterno, nell’approvvigionamento di materie prime, semilavorati e soprattutto macchinari) e svolgono al proprio interno tutte le fasi della produzione. Il problema è che spesso gli strumenti analitici utilizzati sono quelli che hanno validità per altre realtà e non per la nostra zona. Ad esempio, un approccio analitico basato sul distretto Marshalliano – spesso utilizzato per lo studio delle imprese dell’area Nec (le regioni del Nord-Est)- non consente una adeguata valutazione del fatto che le imprese nel consentino e nel crotonese sono scarsamente integrate tra loro, hanno cioè una scarsa comunicazione per quanto riguarda sia il flusso dei beni che quello delle informazioni. Anche un approccio analitico, più di derivazione hirschmaniana, che privilegia le connessioni di produzioni – cioè la capacità delle imprese esistenti di determinare il sorgerei altre imprese – comporta una sottovalutazione di tutti gli altri fattori che determinano il sorgere di altre imprese.
In effetti ambedue questi approcci, sottovalutano la capacità degli imprenditori locali di cogliere ogni particolare e sia pur atipica opportunità di profitto presente in una realtà dominata dal persistere di elementi di arretratezza e dall’assenza di economie esterne. Essi non consentono di evidenziare la capacità degli imprenditori di rapportarsi alla realtà cioè di mostrare quello che proprio Hirschman ha sostenuto: “lo sviluppo è la storia di una cosa che conduce ad un’altra cosa”.
D: Ma cosa c’è quindi? Quali elementi nuovi di sviluppo si possono notare dalla tua analisi?
R: Una delle caratteristiche più interessanti dell’intero sistema – che accomuna sia l’insieme delle imprese che quello degli imprenditori – è una espansione e alla diversificazione che si esplicita anche con iniziative diversi da quello manifatturiero. In alcuni casi si commercializzano beni prodotti da altre imprese; in altri si realizzano o si intendono realizzare investimenti e nuove linee produttive connesse ad attività dello stesso settore; e in altri, infine, si estende l’attività in settori completamente diversi (es. servizi alle imprese o settore agricolo). In una situazione difficile insomma questi imprenditori mostrano una capacità notevole nel cogliere opportunità di profitto nonché adeguata propensione al rischio.
D: Secondo lei le politiche di incentivazione danno risultati positivi?
R: Questo processo di diversificazione produttiva – del tutto diverso da quelle aree di antica e soprattutto di più recente sviluppo industriale – trova origine anche nel fatto che le politiche economiche nazionali non hanno assecondato le potenzialità di sviluppo e le progettualità locali. Più specificamente, le politiche di incentivazione, che hanno avuto un peso del tutto marginale, hanno non solo determinato il persistere di elementi di arretratezza e, cosa ancor più grave, hanno svilito o snaturato la capacità imprenditoriale che continua a rappresentare un carattere strutturale dell’economia, anche se assume forme del tutto particolari. Ne deriva che oggi l’impresa tipo crotonese, cosentina può –con un’immagine – essere paragonata ad un albero costretto a cercare spazio e risorse vitali in un ambiente che non consente la normale esplicitazione delle sue potenzialità di crescita (ad esempio un pino in un faggeto). E così come l’albero crescendo si deforma, anche l’impresa tipo crotonese, cosentina nel suo nascere, sopravvivere ed espandersi si deforma. Ma il deformarsi per sopravvivere evidenzia una forte vitalità, una forte capacità di sopravvivere in un ambiente ostile. E quanto più accentuate sono le deformazioni tanto più forte è la vitalità.

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Pubblicato su La Provincia KR, settimanale di informazionee cultura, Anno XIII n. 13 del 01/04/2006

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