mercoledì 11 marzo 2009

Memorie dal confine 20

“L’ottimismo non è altro, molto spesso, che un modo di difendere la propria pigrizia, le proprie irresponsabilità, la volontà di non far nulla”


Il presente capovolto!


Politicanti senza arte ne parte, gentarella che vive alla giornata, saziando bassi desideri e proponendosi scopi ideali adeguati alla sua psicologia crapulona è l’immagine del nostro triste contesto


di Romano Pesavento

“Ottimismo e pessimismo. È da osservare che l’ottimismo non è altro, molto spesso, che un modo di difendere la propria pigrizia, le proprie irresponsabilità, la volontà di non far nulla. È anche una forma di fatalismo e di meccanismo. Si conta sui fatti estranei alla propria volontà e operosità, li si esalta, pare che si bruci di un sacro entusiasmo. E l‘entusiasmo non è che esteriore adorazione di feticci. Reazione necessaria, che deve avere per punto di partenza l’intelligenza. Il solo entusiasmo giustificabile è quello che accompagna la volontà intelligente, l’operosità intelligente, la ricchezza inventiva in iniziative concrete che modificano la realtà esistente.”(A. Gramsci, Passato e presente)

Ottimismo e pessimismo sono due atteggiamenti nei confronti della vita, come è evidentemente noto a tutti, diametralmente contrapposti e conflittuali. Ai nostri giorni, pare risulti molto á la page, manifestarsi propositivi, giovanili, dinamici, intraprendenti e… fiduciosi nell’avvenire. Chi non indossa un maxi paio di occhiali rosa sul naso, diventa automaticamente apocalittico e “vecchio”. Eppure, già un personaggio divertente di Carlo Verdone ammoniva, gesticolando in modo nevrotico: “Io non sono pessimista, sono realista”. Intendiamo semplicemente dire che raccontare la realtà e non le favole, spesso generosamente propinate da entusiasti demagoghi, è scomodo, fastidioso, sgradevole. Come si evince dal pensiero di Gramsci, il pessimismo, con tutto il suo carico di analisi lucidamente “chirurgiche”, accurate meditazioni e spietati confronti, non è pane per tutti, per svariati motivi; ma soprattutto perché è rassicurante azzerare i conflitti o ignorare eventuali soluzioni allo stato di malessere denunciato. In effetti, fin dalla più tenera età, s’insegna che non basta criticare o condannare un determinato aspetto della società, ma urge proporre e costruire il nuovo sulle ceneri di quanto è superato, per contribuire in modo significativo al progresso della collettività. Il pessimismo gramsciano si nutre di impegno sociale ed umano e conosce tutto lo slancio generoso di chi, insoddisfatto del presente, scalpita e lotta per cambiare quello che non funziona. Dall’ottimismo ottuso, miope e specialmente immotivato, non nasce nulla di proficuo per nessuno. O meglio, forse, qualcuno dall’inerzia ha tutto da guadagnare.
Il “pistolotto” di questa settimana serve ad introdurre un avvenimento di fondamentale importanza per Crotone: il congresso regionale dei DS. Congresso che dovrebbe conferirci, ancora una volta, il “premio fedeltà” della politica regionale: come se l’ “onore”, per quanto elevato, di ospitare una simile manifestazione potesse in qualche modo risarcire la città di tutti gli altri interventi necessari ad un corretto funzionamento della stessa, che vengono sistematicamente rinviati o disattesi. Già, tutti noi sappiamo che, malgrado, i molteplici congressi, convegni, seminari, Crotone rimane e sarà, viene da sospettare, sempre fanalino di coda delle province italiane. Non congressi, convegni, seminari, ma lavoro! Questa è la “canzone popolare”, che echeggia da ogni parte. Occorrono azioni concrete, progetti e programmi capaci di sviluppare un sistema di produzione competitivo e funzionale ai bisogni del territorio. Fino ad oggi, la politica ha fallito la sua missione: il pessimismo lucido di gramsciana memoria ci impone di dichiarare con crudezza la verità dei fatti, senza mezzi termini. Ciò non toglie che la speranza in un cambiamento di rotta sia sempre viva, purché lo si desideri autenticamente. Cosa di cui si incomincia a dubitare.
“Ogni società vive e si sviluppa perché aderisce a una produzione storicamente determinata: dove non esiste produzione, dove non esiste lavoro organizzato, non esiste società, non esiste vita storica. La società moderna ha vissuto e si è sviluppata fino alla fase attuale perché aderiva a un sistema di produzione: a quel sistema di produzione storicamente determinato dall’esistenza di due classi, la capitalistica, proprietaria dei mezzi di produzione e la classe lavoratrice, al servizio della prima, aggiogata alla prima dal vincolo del salario, dal vincolo della minaccia incombente di morte per fame.
Nello stadio attuale la classe capitalista è rappresentata da un ceto… d’avanguardia, la plutocrazia; Le funzioni tradizionali della classe capitalistica nel campo della produzione sono passati nelle mani di un ceto medio ceto irresponsabile, senza vincoli né di interesse né psicologici con la produzione stessa: burocrati del tipo “impiegati dello Stato”, venali, avidi, corrotti, politicanti senza arte ne parte, gentarella che vive alla giornata, saziando bassi desideri e proponendosi scopi ideali adeguati alla sua psicologia crapulona: possedere molte donne, avere molti quattrini da spendere nelle alcove delle prostitute d’alto rango e nello sfarzo vistoso e grossolano, avere una particella del potere di tormentare e far soffrire altri uomini sottoposti.” (A. Gramsci, L’operaio di fabbrica, L’Ordine Nuovo del 21 febbraio 1920)
Il ritratto della struttura sociale elaborato da Gramsci risulta assai aderente alla nostra epoca. Al di là di alcune analisi, forse etichettabili come vetero-comuniste, il quadretto dei burocrati medi, del ceto dominante, nel suo grottesco squallore, è più che attuale: quanti personaggi loschi e untuosi si aggirano per i corridoi del potere, nutrendo come unico ideale il desiderio di potere e soprattutto di esercitare il proprio prestigio personale arricchendosi o tormentando, irridendo, calpestando chi non gode di altrettanta fortuna? La politica dovrebbe, come arte, scienza e tecnica del governo, essere tenuta al riparo da tutto questo. Ahinoi, siamo proprio lontani da una simile, edificante, prospettiva.
Assai interessante risulta essere la lettura de Il principe di Macchiavelli, molte volte studiato e rivisto proprio da diversi uomini di Stato, e che, applicata alla nostra realtà, ci può fornire indicazioni e suggerimenti su come la politica si debba, generalmente, muovere: “Nessuna cosa fa tanto stimare un principe, quanto fanno le grande imprese e dare di sé rari esempi…Giova ancora assai a uno principe dare di sé esempi rari circa governi di dentro, simili a quelli che si narrano di messer Bernabò da Milano, quando si ha l’occasione di qualcuno che operi qualche cosa estraordinaria, o in bene o in male, nella vita civile e pigliare no modo, circa premiarlo o punirlo, di che s’abbia a parlare assai. E sopra tutto uno principe si deve ingegnare dare di sé in ogni sua azione fama di uomo grande e di uomo eccellente.
È ancora stimato uno principe, quando elli è vero amico e vero inimico, cioè quando sanza alcuno respetto si scuopre in favore di alcuno contro ad un altro…Debbe ancora uno principe mostrarsi amatore delle virtù, et onorare li eccellenti in una arte. Appresso, debbe animare li sua cittadini di potere quietamente esercitare li esercizii loro, e nella mercanzia e nella agricoltura, et in ogni altro esercizio delli uomini, e che quello non tema di ornare le sua possessione per timore che li sieno tolte, e quell’altro di aprire uno traffico per paura delle taglie; ma debbe preparare premii a chi vuol fare queste cose, et a qualunque pensa in qualunque modo ampliare la sua città e il su stato. Debbe, oltre a questo, ne’ tempi convenienti dell’anno, tenere occupati e’ populi con le feste e spettacoli.” [Nicolò Macchiavelli, Il principe, Quod principem deceat ut egregius habeatur (Che si conviene a un principe perché sia stimato)]
A questo punto, possiamo anche questa settimana trarre le nostre conclusioni. Ai nostri lettori proponiamo una breve poesia di Brecht, il quale, senza menzionare la parola “comunista”, spiega, con parole semplici un modo di essere integralmente onesto, che per lo scrittore dovrebbe costituire l’essenza dell’agire politico di sinistra. Purtroppo, raramente, oggi, specie nel nostra realtà, possiamo ritrovare una tale potenza di significato così evocativa e suggestiva.

“È ragionevole, chiunque lo capisce. È facile./ Non sei uno sfruttatore, lo puoi intendere./ Va bene per te, informatene./ Gli idioti lo chiamano idiota e, sudici, sudicio./ È contro il sudiciume e contro l’idiozia. Gli sfruttatori lo chiamano delitto. Ma noi sappiamo:/ è la fine dei delitti./ Non è follia./ Non è il caos ma/ l’ordine, invece./ È la semplicità/ che è difficile a farsi.” (Bertolt Brecht, Lode del comunismo, 1933)

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