martedì 10 marzo 2009

Memorie dal confine 19

"Marx: non rinunciamo a costruire una “società di liberi e uguali” non rinunciamo a guidare la lotta degli uomini e delle donne per la “produzione delle condizioni della loro vita”


Che vale, moralmente, Crotone?


“Io vidi gente sotto infino al ciglio; e ’l gran Centauro disse: “E son tiranni che dier nel sangue e nel aver di piglio. Quivi si piangon li spietati danni…”


di Romano Pesavento

Nei meandri della biblioteca civica “Vincenzo Jobbi”di Udine, nascoste tra la polvere del tempo, stavano due importanti relazioni politiche, scritte da Natta e Berlinguer. Consapevole che rivisitare il passato consente di capire e interpretare il presente, ho pensato di confrontare, ancora una volta, i grandi della politica italiana con la miopia, con la mancanza di slancio, con l’assenza di totale fantasia dell’azione amministrativa attuale, con lo scopo, forse ambizioso, di scoprire il percorso “anomalo”, che spinge oggi la politica, soprattutto quella crotonese, a trasformarsi, in modo oscenamente proteiforme, ad ogni piè sospinto, ed a svuotarsi, completamente, di ogni residuo contenuto etico ed ideologico.
“Essere diversi dagli altri vuole dire anche continuare ad essere noi stessi colpire e battere tutto ciò che può offuscare il volto del nostro partito. È essenziale, soprattutto se vogliamo parlare ai giovani, che in una crisi profonda della società, della cultura, delle idee, aspirano non solo a compiere la propria esperienza, ad assumere un ruolo nella vita del paese, ma cercano anche risposte rigorose alla loro ansia di un mondo e di una società migliori, ma cercano anche esempi di rigore politico e morale, cercano educatori in cui avere fiducia. Qui è il termine di confronto della nostra volontà di rinnovare il partito, nella coerenza ai lineamenti e alle caratteristiche che sono all’origine della sua forza popolare, della sua autonomia di classe, del suo spirito unitario, della sua vocazione internazionalista.” (Natta A., Relazione sulle conclusioni della commissione di organizzazione, 1969)
Quanta avvedutezza e saggezza politica in queste parole. Il primo compito che dovrebbe prefiggersi un politico lungimirante dovrebbe essere quello di riuscire a toccare il cuore dei giovani, verde speranza della società, e, assai meno romanticamente, futuri elettori. “Essere se stessi” è un principio che sicuramente non viene messo in discussione dall’attuale classe dirigente, considerando che, senza alcuna remora, si approfitta delle risorse pubbliche senza neanche preoccuparsi di salvare la “forma”. Si spererebbe che “l’essere se stessi” coincidesse con ideali di onestà e integrità morale. Ma questa è tutta un'altra storia.
Quando Natta scriveva tali considerazioni, il periodo era quello “mitico” e leggendario del 1968. Allora si credeva con fiducia e ottimismo nella possibilità di poter cambiare le carte in tavola, benché la crisi economica e sociale fosse piuttosto vistosa anche in quegli anni. Ora, invece, a fronte di una recessione senza precedenti, rispetto all’intero periodo posteriore al secondo dopoguerra, ci ritroviamo nell’abbandono, nell’inerzia, nell’opacità di una prospettiva sociale in cui, per la prima volta le giovani generazioni non avranno alcuna possibilità di assicurarsi condizioni economiche migliori di quelle appartenute ai propri genitori. In questa situazione, già deprecabile e deprimente in sé, si può rilevare l’indifferenza di gran parte della classe politica nei riguardi dei devastanti problemi della collettività. E questo è ancora più grave, se tale passività si registra proprio in quegli schieramenti che avevano (e hanno) ottenuto consensi politici proprio richiamandosi all’idea dell’impegno e della giustizia sociale.
“La verità è che ciò che si rimprovera oggi, come sempre, è che un partito del movimento operaio quale è il PCI non ha rinunciato a perseguire l’obiettivo e a lottare per un mutamento radicale della società. Si vorrebbero partiti di sinistra che di fatto si accontentano di limitare la loro azione a introdurre qualche correzione marginale all’assetto sociale esistente, senza porre mai in discussione e prospettare una sistemazione profondamente diversa dei rapporti che stanno alla base della struttura economica e sociale attuale. La principale diversità del nostro partito rispetto agli altri partiti italiani, oltre ai requisiti morali e ai titoli politici che noi possediamo e che gli altri stanno sempre più perdendo, sta proprio in ciò: che noi comunisti non rinunciamo a lavorare e a combattere per un cambiamento della classe dirigente e per una radicale trasformazione degli attuali rapporti tra le classi e tra gli uomini, nella direzione indicata da due antiche e sempre vere espressioni di Marx: non rinunciamo a costruire una “società di liberi e uguali” non rinunciamo a guidare la lotta degli uomini e delle donne per la “produzione delle condizioni della loro vita”. L’obiezione che ci viene fatta è che questo nostro finalismo sarebbe un modo di voler imporre alla storia una destinazione. No, questo è il modo in cui noi stiamo nella storia, è la tensione e la passione con cui noi agiamo in essa, è la speranza indomabile che ci anima in quanto rivoluzionari. Consapevoli che, invece di avere un sviluppo dell’umanità, si possa andare anche vero una nuova barbarie ( come dice il Marx del Manifesto, verso la “comune rovina delle classi in lotta”) noi ci battiamo perché questo esisto catastrofico sia evitato all’umanità, e chiamiamo a combattere per conseguire un fine di felicità, di serenità, di giustizia, di libertà.” (Berlinguer E., Prospettiva di trasformazione e specificità comunista in Italia, 1981)


Da questi spunti berlingueriani, si evidenziano due concetti fondamentali su cui il PCI doveva negli anni ’80 concentrare la propria azione programmatica: la caratterizzazione di una società di liberi e uguali e la lotta per una produzione di migliori condizioni di vita per tutti. Indipendentemente dal “rosso relativo”, cioè dalla condivisione di ideali di sinistra più o meno estremizzati, anche l’uomo della sinistra più moderata non potrà ignorare che, ai nostri giorni e nella città pitagorica, al di là di qualche appello sporadico ad effetto, la tensione morale che dovrebbe essere sottesa ad un’azione politica di autentica trasformazione, non esiste più: è del tutto scomparsa. Apatia o ipocrisia, nient’altro.
Lo sguardo a questo punto si concentra, quasi per caso, su una frase scritta da Paul Claudel, tesa ad illustrare un principio su cui sembrerebbe costruita l’intera architettura di ogni campagna elettorale politica: “Quando l’uomo cerca di immaginare per gli altri il paradiso in terra, il risultato immediato è un molto rispettabile inferno” (Paul Claudel)
Dall’ “Inferno” in cui siamo oggi, al Sommo Poeta Dante, il passo è breve: “Io vidi gente sotto infino al ciglio; e ’l gran Centauro disse: “E son tiranni che dier nel sangue e nel aver di piglio. Quivi si piangon li spietati danni…” (Dante, Inferno, Canto XII, versi 103)
Così anche questa settimana siamo giunti alle conclusioni. Certo dalla nostra analisi emerge un profilo triste, a tratti desolante, povero di contenuti, di prospettive e di cultura. Se per un attimo, infatti, chiudiamo gli occhi e li riapriamo, scopriamo che la nostra Crotone si è trasformata dalla vecchia Stalingrado del Sud, all’attuale Beirut del Sud, per le macerie e le rovine, sparse un po’ ovunque di un lontano benessere industriale. E allora! Allora non mi rimane che ricordare ancora una volta ai nostri amministratori quanto scritto nel “Il principe” di Macchiavelli nel capitolo Quomodo adulatores sint fugiendi (In che modo si abbino a fuggire li adulatori): “Per tanto uno principe prudente debbe tenere uno terzo modo, eleggendo nel suo stato uomini savi, e solo a quelli debbe dare libero arbitrio a parlarli la verità, e di quelle cose sole che lui domanda e non d’altro; ma debbe domandarli d’ogni cosa, e le opinioni loro udire; di poi deliberare d sé, a suo modo; e con questi consigli e con ciascuno loro portarsi in modo, che ognuno cognosca che quanto più liberamente si parlerà, tanto più li fia accetto: fuora di quelli, non volere udire alcuno, adare drieto alla cosa deliberata, et essere ostinato nelle deliberazioni sua. Chi fa altrimenti, o e’ precipita per li adulatori, o si muta spesso per la variazione de’ pareri: di che ne nasce la poca estimazione sua.”

Pubblicato su La Provincia KR, settimanale di informazione e cultura, Anno XIV n. 15 del 13/04/2007

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