sabato 1 maggio 2010

Lo Stato di diritto nell’esperienza americana: il ruolo della Corte Suprema nel controllo della costituzionalità delle leggi

Romano Pesavento
giornalista pubblicista
La Corte Suprema di Earl Warren

5.1 – Pronuncia in materia di desegregazione Brown v. Topeka

Nella storia dell’affermazione dei diritti civili negli Stati Uniti occupa, certamente, un posto non trascurabile la sentenza emessa ad unanimità il 14 maggio 1954 dalla Corte Suprema Federale guidata da Earl Warren sul tema della discriminazione razziale nel campo dell’istruzione.
Il caso “Oliver Brown contro il Consiglio scolastico di Topeka, Kansas” rappresentò, quindi, un decisivo passo avanti sulla strada della realizzazione dell’uguaglianza tra bianchi e neri nel settore scolastico. A partire da tale sentenza, come scrive Jeffrey Greenbaum, “la Corte di Warren apparve non più soltanto come l’interprete imparziale della legge, bensì come un organo di produzione giuridica (…) Essa, quindi, andò ben oltre il ruolo di semplice interprete della legge nel suo sforzo di promuovere i diritti civili e le libertà individuali. La Corte infuse nella clausola sulla “eguale protezione” del Quattordicesimo Emendamento molta più vita di quanto non avesse goduto fino ad allora.”
Per tal motivo, gli eventi che portarono a tale risoluzione della Corte meritano di essere brevemente ricordati. Nel 1951 venne presentata una causa contro il Board of Education della città di Topeka presso la corte distrettuale del Distretto del Kansas, in favore di Linda Brown, una studentessa di Topeka costretta a camminare per un miglio per raggiungere la sua scuola segregata nera, mentre una scuola bianca era a solo sette isolati dalla sua abitazione.
La causa della Brown ebbe il sostegno dell'NAACP (National Association for the Advancement of Colored People), il cui principale legale, Thurgood Marshall, egli stesso nominato alla Corte Suprema nel 1967, argomentò il caso. La corte distrettuale si pronunciò in favore del Board of Education, citando il precedente stabilito dalla Corte Suprema in Plessy v. Ferguson (1896), che permetteva alle leggi statali di richiedere carrozze ferroviarie "separate ma uguali" per bianchi e neri. Nel 1954 il caso giunse alla Corte Suprema Federale che emise la sentenze che conteneva la seguente conclusione: “Qualunque sia stato il grado delle conoscenze psicologiche al tempo del caso Plessy v. Ferguson, questa sentenza è ampiamente sostenuta dalle autorità moderne. Qualsiasi linguaggio in Plessy v. Ferguson contrario a questa tesi viene rigettato.
Concludiamo sostenendo che, nel campo dell’istruzione pubblica, la dottrina “separati ma eguali” non ha motivo di esistere. Strutture educative separate sono sostanzialmente diseguali. Quindi noi sosteniamo che i querelanti ed altri in situazioni simili siano, a causa della segregazione, di cui sono vittime, privati dell’eguale protezione della legge garantita dal 14° emendamento. Questa disposizione rende inutile ogni discussione se la segregazione violi o no anche la clausola del “giusto processo” del 14° emendamento.”
Importanti sono le motivazioni che hanno definito il raggiungimento di tale punto d'arrivo. Per illustrarle mi avvarrò dello studio di Cesare Pinelli che strutturandole in quattro parti così scrive: “La Corte osserva anzitutto che l’esame dei lavori preparatori del XIV emendamento non permette di accertare se gli autori del testo intendessero ammettere la regola della segregazione. Precisa poi che a differenza dei precedenti, nei quali la dottrina “separati ma eguali” riguardava i trasporti pubblici (Plessy v. Ferguson), o nei quali si discuteva della diseguaglianza fra prestazioni offerte nelle scuole per bianchi e in quelle per neri, il caso al suo esame impone di “esaminare gli effetti della segregazione in sé sull’istruzione pubblica”.
Il terzo passaggio è dedicato all’importanza dell’istruzione nella società democratica, “fondamento stesso della convivenza civile” e “strumento principale per rendere il fanciullo consapevole dei valori culturali, prepararlo alla sua successiva formazione professionale e aiutarlo ad adattarsi normalmente al proprio ambiente”.
Oggi, soggiunge la Corte, “è improbabile che un ragazzo possa ragionevolmente aspettarsi di riuscire nella vita se gli sia negata la possibilità dell’istruzione. Tale possibilità, dove sia lo stato ad assumersi la responsabilità di fornirla, è un diritto che dev’essere reso accessibile a tutti alle stesse condizioni”. Da tale rilievo, la Corte desume infine che tener separati alcuni ragazzi da altri della stessa età e capacità solo in ragione della loro razza “provoca l’insorgere di un sentimento di inferiorità riguardo al proprio status nella comunità, che può incidere sulla loro personalità in modo irreversibile....Concludiamo sostenendo che, nel campo dell’istruzione pubblica, la dottrina ‘separati ma eguali’ non ha motivo di esistere. Strutture educative separate sono sostanzialmente diseguali.”
Come lo stesso Pinelli ha evidenziato, esiste, in tale sentenza, un confronto diretto tra il principio del “separati ma eguali” ed il XIV emendamento teso ad abrogare ed a rendere incostituzionale qualsiasi norma che conducesse ad accentuare forme di sostanziale diseguaglianza tra razze diverse.
Su queste considerazioni possiamo affermare che Brown v. Board of Education of Topeka (1954) fu, certamente, un caso miliare della Corte Suprema, che mise esplicitamente fuori legge le strutture educative segregate per neri e bianchi, decidendo sulla base del fatto che la dottrina dell'educazione pubblica "separati ma eguali" non poteva veramente fornire agli americani di colore delle strutture paragonabili a quelle a disposizione dei bianchi. D’altronde fu proprio la stessa Corte ad affermare di non poter “portare le lancette dell’orologio indietro, nel 1868, anno di approvazione del XIV Emendamento” e di dover valutare in quel momento gli effetti, ritenuti discriminatori, della segregazione nelle scuole. La sentenza metteva in discussione, quindi, quanto la stessa Corte Suprema aveva sentenziato nel 1896 nel caso Plessy v. Ferguson. Come abbiamo già menzionato in tale situazione la Corte aveva dichiarato la costituzionalità di una legge della Louisiana del 1890 che stabiliva, nei trasporti ferroviari, che venissero offerti servizi e condizioni “eguali ma separati” per passeggeri bianchi e di colore. In tale occasione, la Corte aveva affermato: “Noi riteniamo che l’attore erri argomentando che la segregazione delle due razze imprima un sigillo di inferiorità alle persone di colore. Se è questa l’eccezione sollevata, non vi è dubbio che una tale conseguenza non potrebbe in alcun modo rintracciabile nella legge, ma solo nella interpretazione che la razza di colore ha scelto di dare a tale disposizione…. La tesi del querelante assume inoltre che la legislazione possa vincere il pregiudizio e che i diritti eguali non possano essere accordati al negro se non con la commistione forzata delle due razze. Non possiamo accettare questa affermazione. Se le due razze devono incontrarsi su pari termini di eguaglianza sociale, ciò deve essere il risultato di affinità naturali, di un mutuo apprezzamento dei meriti dell’altra, e di un consenso volontario degli individui. (La legislazione) non può sradicare istinti o abolire distinzioni basate su differenze fisiche, e ogni tentativo in questo senso non può che risultare in un accentuazione delle difficoltà dell’attuale situazione”. Successivamente il Pinelli ancora scrive: “Il raffronto col XIV emendamento della regola del “separati ma eguali” prevista nella legislazione di alcuni Stati si basava su un’interpretazione del principio di eguaglianza aggiornata alle condizioni dell’epoca, con richiami a studi sociologici e psicologici che dimostravano il senso di irreversibile inferiorità indotto dalla segregazione negli studenti neri. In questo contesto, osserverà Freund, la “sostanziale diseguaglianza” della segregazione potrebbe significare sia diseguaglianza in termini empirici, sulla base di studi che però possono a loro volta venire smentiti in seguito, sia che la segregazione equivale “sostanzialmente” a disparità di trattamento indipendentemente da accertamenti empirici, dunque in un’accezione di principio in grado di resistere nel tempo. Può darsi, peraltro, che l’insistenza sui concreti effetti della segregazione sugli studenti neri mirasse a restringere il caso al settore dell’istruzione pubblica, senza configurare esplicitamente un overruling dell’indirizzo generale della giurisprudenza sulla segregazione. Ciò equivaleva a pagare un prezzo in termini di estensione del principio, e infatti vi fu chi come Wechsler criticò subito Brown sulla premessa che la Corte spettasse enunciare principi neutrali, in quanto generali. Ma l’intento di circoscrivere la pronuncia al campo dell’istruzione faceva parte di una strategia persuasiva tesa a raggiungere il massimo consenso possibile su una questione destinata ad accendere forti divisioni nel Paese.” Certamente gli stessi movimenti afroamericani (National Association for the Advancement of Colored People[3][45]) vedevano nell’annullamento del principio “separati ma eguali” nel sistema dell’istruzione la possibilità di un’estensione dei diritti civili dei neri ad ulteriori campi sociali ed una maggiore opera di moralizzazione della condizione dei neri nell’intero Paese.
Ricordiamo che alcuni Stati (Alabama, Georgia, Louisiana, Mississipi e Carolina del Sud)[4][46], a quel tempo, poggiavano pesantemente sulla sottomissione di gran parte della popolazione nera. Per tal motivo molte fra le voci oltranziste invocarono la messa in stato d’accusa della Corte Suprema per tradimento nei confronti dei principi fondamentali del sistema costituzionale americano, e numerose richieste vennero rivolte al Congresso per apportare modifiche alla Costituzione sul tema dei poteri statali. L’intransigenza razzista si concretizzò anche nei diversi tentativi illegittimi di abolire le scuole pubbliche, sostituendole con altri istituti finanziati dai singoli stati, in molti dei quali furono escogitati sistemi per aggirare la sentenza del maggio’54. Le pressioni della NAACP portarono la Corte Suprema ad agire per un perfezionamento dei termini specifici di applicazione della sentenza, così nel maggio del 1955, con una dichiarazione, la Corte sollecitava gli stati a procedere con rapidità verso la desegregazione degli istituti scolastici, evitando tuttavia quella programmazione precisa che le speranze integrazioniste si aspettavano. In tale sentenza troviamo, infatti, scritto: “Per realizzare questo interesse potrà essere necessaria la rimozione di una serie di ostacoli alla transazione verso un sistema scolastico rispondente ai principi costituzionali richiamati nella nostra decisione del 17 maggio 1954.”
5.2 – Sentenze in materia di libertà di espressione: New York Times v. Sullivan, Street v. New York
“Per la prima volta, in questo caso ci è richiesto di determinare fino a qual punto le tutele costituzionali della libertà di stampa e di parola limitino il potere di uno Stato nel giudicare di una azione per danni derivanti da diffamazione a mezzo stampa, proposta da un funzionario pubblico contro critiche rivolte alla sua condotta ufficiale…[5][47]” Con questo quesito, la Corte Suprema Federale, nella sentenza New York Times vs. Sullivan del 1964, affronta la diatriba tra il diritto alla privacy e la libertà di espressione. Nel panorama giuridico americano la sentenza assume una considerevole importanza in quanto ha rappresentato la prima profonda modifica in materia di diffamazione, fino ad allora retta da una lunga tradizione di common law. A questo punto è il caso di ricordare brevemente la vicenda: “L.S. Sullivan era uno dei tre commissari eletti nella città di Montgomery, Alabama. Sullivan querelò per diffamazione a mezzo stampa quattro parti, includendo la New York Times Company[6][48], ed una giuria della Corte Circondariale della Contea di Montgomery gli aggiudicò danni per $ 500.000.
La Corte Suprema dell’Alabama ratificò il giudizio con la motivazione che le dichiarazioni fatte erano state infamanti in se stesse e false.”
Nel corso del 1964 il caso giunse alla Corte Suprema Federale che cassò la sentenza della Corte Suprema dell’Alabama affermando che: “la paura di condanne a risarcimento in base ad una normativa quale quella applicata dalla Corte dell’Alabama può essere notevolmente più inibente della paura di una incriminazione penale” e costituiva pertanto un’illecita limitazione alla libertà di manifestazione del pensiero.
Ben si comprende come fa il prof. Paolo Guarda, nel suo saggio La diffamazione a mezzo stampa in cammon law: profili civilistici, che “il punto giuridico in discussione nel caso era la costituzionalità della legge dell’Alabama, la quale richiedeva che il convenuto provasse solamente che le asserzioni fossero state “libelous per se”: tale era ritenuta essere una pubblicazione volta a danneggiare una persona, a ledere la sua reputazione o metterla in cattiva luce agli occhi dell’opinione pubblica. Allorquando un pubblico ufficiale fosse stato attore in una causa per diffamazione, la sua posizione governativa era già di per se sufficiente a far ritenere che la sua reputazione fosse stata lesa dalla presunta dichiarazione diffamatoria. Inoltre, una volta che il “libel per se” fosse stato dichiarato, il convenuto non aveva altra difesa se non quella di riuscire a persuadere la giuria che le affermazioni di cui era causa corrispondevano al vero. Al fine di proteggere il libero svolgimento del dibattito politico, la Corte stabilì che un pubblico ufficiale non poteva ottenere il risarcimento dei danni per una affermazione falsa e per lui diffamante se non fosse riuscito a provare che la dichiarazione era stata espressa con “actual malice”. Sotto la vigenza di questa regola, gli attori dovevano dimostrare che il convenuto aveva esternato affermazioni con la consapevolezza della loro falsità o con un’imprudente incuranza di tale circostanza.” La Corte Suprema nella sua decisione era arrivata alla conclusione che il Primo Emendamento impediva ad un pubblico ufficiale di chiedere i danni per diffamazione in relazione a critiche e notizie riguardanti la sua condotta ufficiale, a meno che la dichiarazione non fosse stata fatta con dolo, ossia con la conoscenza che era falsa, o con una completa noncuranza per l’accertamento della sua corrispondenza alla verità. La Corte osservò che i vantaggi di autocontrollo democratico derivante da un dibattito libero e non inibito, anche in presenza di errori in buona fede, superano di gran lunga i rischi che può correre la reputazione privata di un pubblico ufficiale.
Un’altro studioso lo Zencovich, d’accordo con tale visione, evidenzia, nel suo saggio Libertà di stampa o diritto al profitto delle aziende editoriali, l’essenza di questa nuova normativa: “le condanne per risarcimento, in particolare quelle esemplari, contrastano con la libertà di stampa perché determinano un atteggiamento di autocensura nella stampa. Ovverosia, il timore di pesanti perdite di profitti indurrebbe la stampa a non esprimersi in tutta libertà, soprattutto nel criticare pubblici funzionari e autorità. La strada scelta dalla Corte Suprema per tutelare la stampa dal pericolo di tali condanne è quella, come s’è visto, di trasformare la diffamazione da illecito civile in illecito civile di dolo, affrancando quindi la stampa dai principi della diligenza, normale o professionale, che generalmente sottendono la responsabilità civile, e aggravando l’onere della prova per la persona diffamata.”
In seguito altre sentenze della Corte Suprema ripresero e svilupparono il principio di libertà di espressione. A questo punto, la conclusione più consona che possiamo trarre è che la protezione della libertà di espressione come affermata nel Primo Emendamento rappresenta una delle maggiori differenze tra il defamation law inglese e quello americano.
Un caso che destò dissenso e controtendenza rispetto al parere della Corte nell’opinione di Warren fu quello relativo alla controversia tra Street v. New York del 1969. In particolare, si trattava del seguente avvenimento: “Sydeny Street, un Afro-Americano, dopo aver saputo che il leader per i diritti civili James Meredith era stato ucciso da un colpo di arma da fuoco sparato da un cecchino, appiccò il fuoco a una bandiera Americana all’incrocio fra St. James Place e Lafayette Avenue a New York. Street gettò la bandiera sul marciapiede quando questa cominciò a bruciare. Il funzionario di polizia che arrestò Stret testimoniò che, quando aveva chiesto a Street se era stato lui a dar fuoco alla bandiera, Street rispose: “si, è la mia bandiera; l’ho bruciata. Se lasciano che accada a Meredith ciò che gli è accaduto, non abbiamo bisogno di una bandiera American”. Street fu accusato di aver commesso l’illecito con premeditazione, per aver intenzionalmente e illegalmente profanato la bandiera americana.[12][54]” La Corte annullò il verdetto di colpevolezza basandosi sul Primo Emendamento che garantiva la libertà di parola e quindi proibiva agli Stati, sulla base del Quattordicesimo Emendamento, di infrangere protezioni costituzionali quali la "Carta dei Diritti" ed altri "diritti fondamentali" dei cittadini e delle persone sotto la giurisdizione degli Stati Uniti. Ad orientare la decisione Corte Suprema Federale è stato certamente l’esame di alcuni casi precedenti (Stromerg v. California, Thomas v. Collins, Borad of Education v. Barnette). Anche se appare importante il periodo in cui vengono presi in considerazione quattro punti (interessi governativi) per cui la condanna dell’imputato, a causa delle sue parole, possa essere plausibilmente giusta. Troviamo scritto: “1) un interesse a impedire all’imputato di continuare ad incitare con le sue parole la folla a commettere atti legali; 2) un interesse a prevenire che l’imputato pronunciasse parole così pronunciasse parole così l’ordine pubblico; 3) un interesse a proteggere i sentimenti dei passanti che potevano essere sconvolti dalle parole dell’imputato sulla bandiera americana; 4) un interesse ad assistere che l’imputato, senza tener conto dell’impatto dalle sue parole sugli altri, mostrasse il giusto rispetto per il nostro emblema nazionale.” La Corte dopo aver affrontato, uno per uno, tali punti ha ritenuto che “nessuno di questi interessi possa costituzionalmente giustificare la condanna dell’appellante per aver parlato come egli fece”. Il Chief justice Warren aveva un’opinione diversa. Warren pensava che gli atti compiuti da Street erano la vera causa della sua imputazione e che come lui stesso conclude “gli Stati ed il Governo Federale abbiano il potere di proteggere la bandiera da atti di profanazione e di oltraggio. Ma poiché la Corte non ha affrontato il punto in questione, non servirebbe a nulla esporre i motivi a sostegno della mia opinione (…) Dal momento che io sono convinto che la Corte dovrebbe esprimersi circa la costituzionalità della condotta di un imputato in questo caso e dal momento che sono del parere che questa condotta possa essere penalmente punita, io dissento.”
5.3 Pronuncia in materia processuale: Miranda v. State of Arizona
Il diritto al patrocinio legale, l’inammissibilità di confessioni rese in maniera impropria e la esclusione di mezzi di prova ottenuti illegalmente sono segni di riconoscimento importanti dell’opera di cambiamento e di riforma operati dalla Corte Suprema guidata da Warren nei procedimenti penali statali. La controversa decisione della Corte nel caso Miranda v. State of Arizona del 1966 è il simbolo di quanto notevole fu il mutamento nel rapporto tra competenza giudiziaria federale e Stati. Rapporto che vide crescere, considerevolmente, il peso della competenza giudiziaria federale a spese degli Stati.
Prendendo come riferimento casi già esaminati dalla Corte (Escobedo v. Illinois, Weems v. Unitated States, Bram v. United States, Carnely v. Cochran, Gideon v. Wainwright, Douglas v. California), eventi giudiziari storici (i processi di Sir Nicholas Throckmorton, di Udal, di John Lilburne, parere della Corte Suprema della California), manuali d’istruzione sugli interrogatori per la polizia, Warren scrisse in tale sentenza: “l’accusa non può usare dichiarazioni, non importa se a discolpa o accusatorie, che derivino da interrogatori dell’imputato fatte nelle stazioni di polizia, a meno che non venga dimostrato che sono state adottate quelle garanzie procedurali in grado di assicurargli il privilegio costituzionale di non autoincriminarsi. (…) Per quanto riguarda le salvaguardie procedurali che devono essere adottate, a meno che altri mezzi pienamente efficaci siano stati escogitati per informare gli accusati del loro diritto a rimanere in silenzio e per assicurare una costante opportunità di esercitare tale diritto, noi riteniamo necessarie tali misure. Prima di un interrogatorio la persona deve essere avvertita di avere diritto a rimanere in silenzio, che qualsiasi dichiarazione faccia può essere usata contro di lei e che ha il diritto alla presenza di un avvocato, sia di fiducia che d’ufficio. L’imputato può rinunciare a questi diritti a condizione che la rinuncia sia espressa volontariamente, consapevolmente e coscientemente.”
Libertà di azione nell’esercizio dei propri diritti del soggetto incriminato e relativo privilegio a non autoincriminarsi durante un interrogatorio in una stazione di polizia (rimanere in silenzio, essere informati sui relativi effetti di un eventuale testimonianza, diritto ad un consulente legale durante l’interrogatorio), elementi fondamentali del Quinto Emendamento, erano alla base della decisione della Corte Suprema Federale nel caso Miranda v. State of Arizona. Quindi con l’affermarsi del privilegio della non autoincriminazione, previsto nel Quinto Emendamento, reso applicabile agli Stati attraverso il Due Process Clause del Quattordicesimo Emendamento, la Corte sostenne la necessità di inserire tali tutele procedurali nel procedimento penale statale. Prima di tale revisione (caso Miranda) i poliziotti e i pubblici ministeri estorcevano confessioni dagli imputati al posto di polizia senza alcuna garanzia procedurale a favore dell’innocente. Ben si comprende, così, come tutto ciò apportava un notevole cambiamento nel diritto e nella procedura penale a favore dell’accusato.
A tal proposito Warren scrisse nelle conclusioni: “noi sosteniamo che quando un individuo viene arrestato o comunque privato in modo significativo della sua libertà dalle autorità e viene sottoposto ad interrogatorio, il privilegio di non autoincriminarsi è messo a repentaglio: Tutele procedurali devono essere impiegate per proteggere il privilegio e, a meno che altri mezzi pienamente efficaci non siano adottati per informare la persona del suo diritto a rimanere in silenzio e per assicurare che l’esercizio del diritto sia scrupolosamente onorato, sono necessari i seguenti provvedimenti. L’imputato deve essere avvisato prima di qualsiasi interrogatorio che egli ha il diritto di rimanere in silenzio, che qualsiasi cosa egli dica può essere usata contro di lui in tribunale, che egli ha il diritto alla presenza di un avvocato e che, se egli non può sostenere la spesa di un avvocato, se lo desidera, ne sarà nominato uno per lui prima di essere sottoposto a qualsiasi interrogatorio. La possibilità di esercitare questi diritti deve essergli offerta durante l’intero interrogatorio.”

5.4 Pronuncia in materia di rapporti Stato – Chiesa: Engel v. Vitale
All’inizio degli anni sessanta uno dei nodi più difficili da sciogliere fu la costituzionalità della pratica della preghiera nelle scuole pubbliche americane. Certamente, la problematica rientrava nel campo dei rapporti tra Stato e Chiesa. Nel 1962 il caso Engel v. Vitale metteva in risalto l’affermarsi di tale questione. La controversia fu sollevata dai genitori di alcuni studenti di una scuola pubblica di New Hyde Park, nello Stato di New York, che si erano lamentati sostenendo che la preghiera era in contrasto con le loro credenze religiose. La Corte Suprema Federale, guidata da Warren, decise a maggioranza che non si poteva istituzionalizzare una religione in quanto contraria al Primo Emendamento della Costituzione. La sentenza fu scritta dal giudice Black. Il quale, in un passo della decisione, mise in evidenza che “non fa parte dei compiti del governo comporre preghiere ufficiali per qualsiasi gruppo di cittadini americani, da recitare come parte di un programma religioso messo in atto dal governo[18][60].” Con la sentenza si stabiliva, così, l’eguaglianza davanti alla legge dei diversi credi religiosi deliberando che la preghiera cristiana recitata nelle scuole infrange il così chiamato "Establishment Clause of the First Amendment" in cui si afferma che "il Congresso non promulgherà nessuna legge volta a promuovere e consolidare una forma di religione". Analizziamo, adesso, la struttura della sentenza. Nella parte iniziale della sentenza viene messo in chiara evidenza il conflitto tra la norma costituzionale ed il comportamento normativo applicato dallo Stato di New York per promuovere la recitazione della preghiera delle Reggenti: “Pensiamo che, usando il proprio sistema di scuole pubbliche per promuovere la recitazione della preghiera dei Reggenti, lo stato di New York abbia adottato una pratica del tutto incompatibile con le Estamblishment Clause.” Successivamente, la Corte Suprema Federale, per decantare il principio di libertà di credo implicito in ogni singolo individuo e la tortuosa strada che ha portato gli Stati Uniti a garantire tale principio, prende in esame il periodo storico in cui si è avuta l’approvazione da parte del Parlamento inglese del Book of Common Prayer (1548 e 1549). L’importanza di tale testo è, ben evidenziata, dal giudice Black nella sentenza: “espone in minuti dettagli la forma e il contenuto di preghiere e di altre cerimonie religiose, approvati e da usarsi nella Chiesa d’Inghilterra, stabilita e sostenuta con le tasse pagate dai sudditi. Le controversie sul Book e su quale dovesse essere il suo contenuto, minacciarono più volte di distruggere la pace di quel paese via via che le forme approvate di preghiera nella chiesa stabilita cambiavano secondo le opinioni particolari dei singoli governanti in carica nei vari periodi.” Sulla spinta storica delle controversie nate dall’imposizione di emendamenti e di idee per modificare il Book da parte di gruppi potenti in Inghilterra nacquero in America ed in particolare nello stato della Virginia, al tempo della rivoluzione contro il dominio politico inglese (1785-1786), i Virginia Bill for Religious Liberty con il quale tutti i gruppi religiosi vennero posti in una posizione di eguaglianza rispetto allo Stato. Ecco allora che nasce la necessità di tutelare la libertà dell’individuo e la libertà di religione. Attraverso il Primo Emendamento della Costituzione, rafforzato dalle norme del Quattordicesimo Emendamento, si affermava quindi la garanzia che né il potere né il prestigio del Governo Federale sarebbe stato usato per controllare, sostenere ed influenzare il genere di preghiera che i cittadini americani potevano recitare, che la religione dei cittadini non deve essere soggetta alle pressioni del Governo per essere cambiata ogni volta che una nuova amministrazione politica venisse eletta[19][61]”. Dopo aver quindi affrontato l’importanza di una necessaria separazione tra Governo e religione volta a garantire la libertà dell’individuo, la sentenza entra nel merito della controversia in due parti fondamentali. Nella prima parte, facendo riferimento al programma dello Stato di New York, scrive: “Non può esservi dubbio che il programma dello Stato di New York relativa alla preghiera stabilisca il credo religioso rappresentato dalla preghiera dei Reggenti.” Nella seconda parte si pone, invece, l’attenzione alle limitazioni imposte su tale problematica dalla Establishment Clause: “ Né il fatto che la preghiera possa essere considerata neutrale dal punto di vista confessionale, né il fatto che sia facoltativo da parte degli studenti praticarla, possono servire a liberarla dalle limitazioni stabilite dalla Establishment Clause o da quelle della Free Exercise Clause del Primo Emendamento, le quali vigono anche contro lo Stato in virtù del Quattordicesimo Emendamento. Sebbene queste due clausole possano in certi casi sovrapporsi, esse vietano due tipi completamente diversi di usurpazione della libertà religiosa da parte del governo.” Nelle conclusioni la Corte afferma, così, l’incostituzionalità della legge dello Stato di New York: “Le leggi di New York che ufficialmente prescrivono la preghiera dei Reggenti sono incompatibili sia con gli scopi della Establishment Clause che con la stessa Establishment Clause.”
Lo spirito di laicità espresso dalla Costituzione veniva, perciò, sostanzialmente garantito.




















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