Romano Pesavento
giornalista pubblicista
L’ampliarsi del sindacato della Corte Suprema americana sulla ragionevolezza
3.1 – Orientamento restrittivo della Corte fino al 1890
Abbiamo già avuto modo di constatare come con la sentenza Malbury v. Madison si rendeva il potere giudiziario – inteso quale rappresentante virtuale del popolo costituente – responsabile della realizzazione e della difesa dei principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale. Al tempo stesso quella sentenza spogliava il potere legislativo del ruolo di interprete della Costituzione, dando vita a un vincolo giuridico permanente al potere della maggioranza, analogo a quello esercitato sui singoli dalle leggi ordinarie. Nel corso dell’Ottocento la Corte Suprema tentò a più riprese di rispondere alle critiche e agli attacchi che le vennero rivolti cercando di riprodurre all’interno della giurisprudenza americana l’immagine asettica e distaccata del giudice di common law. Il richiamo alla tradizione di common law svolse una duplice funzione: di freno alle spinte radicali che potevano derivare dalla teoria lockiana del contratto e di legittimazione di una visione del diritto che –in contrasto con la visione pubblica originaria legata alla scrittura stessa della Costituzione – si presentava ora quale ambito privilegiato di quella ragione “artificiale” che il giudice soltanto possedeva in virtù della propria formazione specialistica.
L’intero ambito dei rapporti economico contrattuali venne escluso dalla sfera della decisione politica e sottoposto alla competenza dell’azione giudiziaria. Le conseguenze di ciò andarono al di là dei rapporti economico-contrattuali. Basti pensare che nella sentenza Dred Scott v. Sandford del 1857 la Corte stabilì che la proprietà degli schiavi aveva lo stesso titolo a essere protetta di un qualsiasi altro tipo di proprietà.
Certamente il controllo di costituzionalità ha nel corso del tempo una sua evoluzione che ha dato corso all’assoggettamento del potere legislativo alla tutela di quello giudiziario. Occorre leggere la prima parte della sezione 10 dell’art. 1 della Costituzione: “Nessuno Stato potrà concludere trattati, alleanze o patti confederali; (…) o approvare alcun decreto di limitazione dei diritti del cittadino; alcuna legge penale retroattiva, ovvero leggi che portino alle obbligazioni derivanti da contratti….” o l’ultima parte dell’art. 5 del Bill of Rights dove troviamo scritto che nessuno potrà essere “privato della vita, della libertà o dei beni, se non in seguito a regolare procedimento legale” per riscontrare come tali clausole generali portassero le corti ad esercitare un controllo costituzionale che sempre più frequentemente degenerava da controllo di competenza legislativa a controllo esercitato sulla giustizia e sull’opportunità delle leggi. Tale situazione si è rafforzata con il XIV emendamento del 1868 che costituì le fondamenta moderne per il giusto processo e la clausola di uguale protezione nelle leggi di ciascuno stato. Lo scopo di tale norma giuridica doveva essere quello di garantire i diritti degli schiavi. Infatti in tale emendamento troviamo un’ampia definizione di cittadinanza che vanificava la già citata sentenza Dred Scott v. Sandford della Taney’s Court che escludeva gli schiavi e i loro discendenti dal godimento dei diritti costituzionali.
Da tale considerazione ben si comprende che la guerra civile e il sacrificio di Lincoln hanno certamente rappresentato un’esperienza decisiva nell’abbandono del regime della Taney’s Court. Da una parte l’approvazione di alcuni emendamenti e, in particolare del XIV°, sanzionarono l’eguaglianza formale che ogni Stato doveva riconoscere a tutti i cittadini. Dall’altra il Congresso, prendendo decisamente le redini della situazione, fece valere tutta la propria volontà di destabilizzare la Corte, variandone l’assetto compositivo per ben tre volte in un arco temporale che va dal 1863 al 1869.
La Corte che venne fuori da un periodo così convulso e denso d’avvenimenti era chiamata, a detta di Ackerman, in virtù del duplice obbligo di rispetto della continuità costituzionale ma anche della considerazione degli avvenimenti epocali che da poco si erano conclusi, a conciliare “Founding and Reconstruction Principles”. Se in un primo momento, e il riferimento è soprattutto alle Corti presiedute da Salmon Portland Chase (1864-74) e Morrison Remick Waite (1874-88), il lavoro della Corte conduce ad un restringimento della prospettiva garantista della Federazione al solo aspetto della non discriminazione razziale, così che i Founding Principles valevano per tutte le questioni altre, col tempo questa sintesi venne ad assumere e ad integrare a pieno le due prospettive. Tanto più la sintesi fu completa quanto più la “lived experience” dei giudici della Corte si allacciava alle esperienze ed ai mutamenti culturali e ideologici lasciati dalla guerra civile.
Parallelamente alla sintesi si affacciava però, nel seno della prospettiva di tutela garantistica della federazione Statunitense, un’interpretazione ben specifica delle libertà da tutelare o meglio ancora dello spiraglio attraverso cui filtrare la benemerita “American freedom”. Infatti le nozioni che, in virtù del quattordicesimo emendamento, vennero considerate come strettamente funzionali ad un’effettiva tutela della libertà dell’individuo furono considerate il “due process of law” e la concezione sacrale della proprietà e della libertà contrattuale.
Di qui la disposizione della prima sezione dell’emendamento: “Tutti gli individui nati o naturalizzati negli Stati Uniti, e soggetti alla loro sovranità, sono cittadini degli Stati Uniti, e soggetti alla loro sovranità, sono cittadini degli Stati Uniti e degli Stati in cui essi risiedono. Nessuno Stato promulgherà o applicherà leggi che limitino i privilegi o le immunità dei cittadini degli Stati Uniti; e nessuno Stato priverà alcuna persona della vita, libertà o proprietà senza una regolare procedura legale (due process law); né negherà ad alcuno, nella sua giurisdizione, l’eguale tutela di fronte alla legge”. Nell’ultima sezione troviamo scritto: “Il Congresso avrà il potere di dare attuazione, adottando un’apposita legislazione, alle disposizioni di questo articolo.”
Non più, quindi, il potere federale, ma il governo in generale, e i governi statali in particolare diventano allora l’oggetto dell’iniziativa dei tribunali volta a tutelare i diritti degli individui.
In merito alla possibilità dell’emendamento di aver raggiunto l’obiettivo prefissato, il professore Lambert ha un giudizio molto scettico, infatti sull’argomento le sue parole risultano molto chiare: “L’obiettivo immediato perseguito con l’emendamento –la protezione dei neri- non è stato raggiunto o lo è stato solo in parte. La storia di questo fallimento è stata eloquentemente ripercorsa da Lord Bryce in alcuni capitoli della sua grande opera del 1888, l’American Commonwealth, che sono stati quelli più scrupolosamente rimaneggiati ed aggiornati nelle successive ristampe. Ma ancora più significative, per un giurista, è la semplice lettura di qualche nota tecnica di giurisprudenza, come ne trovo, ad esempio, nella Harvard Law Review (anno XXXI, pp. 475-479), in cui, soffermandosi su leggi od ordinanze municipali di “segregazione” delle razze, l’annotatore passa in rassegna alcune decisioni con le quali le corti –dinanzi a disposizioni che imponevano alle società ferroviarie di predisporre scompartimenti separati per i bianchi e per la gente di colore, o che confinavano i neri nelle loro scuole speciali, o ne precludevano l’accesso alla proprietà immobiliare in certi quartieri delle città – hanno convalidato questi atti legislativi con il pretesto che, per il fatto stesso di vietare ai bianchi di mischiarsi ai neri e ai neri di mischiarsi ai bianchi, essi rispettavano l’eguale protezione delle leggi garantita alle due razze dal XIV emendamento.[1][27]”
Certamente tale emendamento ha condotto la giurisprudenza americana verso una gamma completa di garanzie offerte a tutti i cittadini per tutelare i diritti acquisiti o le loro situazioni consolidate dalle usurpazioni della legge. Alcuni studiosi hanno tracciato l’evoluzione storica di questa forma di ricorso giudiziario che porta effettivamente ad uno studio tecnico del XIV emendamento e della sua “due process clause”. A tal proposito Lambert prende a riferimento i saggi del giudice Charles H Hough e dell’avvocato Fletcher Dobbyns. Attraverso lo studio di Dobbyns, Lambert mette in evidenza la duplice deviazione subita dall’emendamento del 1868 nell’applicazione giudiziaria. Lo stesso scrive: “L’intenzione dei suoi autori, vigorosamente affermata tanto nei lavori preparatori che nella quinta sezione, era stata quella di “nazionalizzare le libertà civili” e di permettere alla legislazione federale di penetrare all’interno degli stati per imporvi una concezione uniforme dei diritti civili, alla quale le popolazioni del Sud restavano refrattarie.”
Anche se occorre ricordare che dopo gli Slaughter House Case (1873) che già circoscrivono la ratio del XIV emendamento, la Corte suprema limitava ulteriormente il portato normativo di questa disposizione nel 1883, con la decisione nota come Civil Rights Cases. In questa circostanza la Corte riteneva incostituzionale il Civil Rights Act del 1875, che vietava e puniva comportamenti discriminatori nei confronti della popolazione di colore in luoghi pubblici, alberghi, mezzi di trasporto.
Presupposto di tale provvedimento legislativo era che il XIV emendamento attribuisse al Congresso non solo la competenza ad adottare misure che rimediassero a leggi statali discriminatorie, modificandole o annullandole, ma anche quella a adottare misure positive volte a colmare lacune della legislazione statale, incidendo direttamente sulle condotte dei privati come su quelle dei funzionari pubblici. La Corte, chiamata a giudicare sulla legittimità del provvedimento federale, coglie invece l’occasione per smentire tale presupposto e negare al Congresso la competenza a disciplinare, attraverso il XIV emendamento, le condotte dei privati cittadini. La V sezione di tale disposizione, che riconosce al legislativo federale la facoltà di adottare la legislazione opportuna per dare esecuzione al contenuto dell’intero articolo, non conferisce al Congresso il potere di legiferare su materie di competenza tradizionalmente statale, ma solo quello di adottare una legislazione che corregga gli effetti di quella degli stati. Così, a parere della Corte, “nel caso considerato, finché non verrà approvata una legge statale [...] che violi i diritti dei cittadini tutelati dal XIV emendamento, nessuna legislazione degli Stati Uniti in base a tale norma potrà essere approvata, in quanto i divieti dell’emendamento sono rivolti a leggi ed atti statali.” Secondo Lambert tale giurisprudenza ha prodotto, quale risultato concreto, quello di eliminare dalla costituzione la quinta sezione del XIV emendamento e di affrancare gli Stati dalla tutela legislativa del potere federale. Naturalmente l’analisi riportata da Lambert conduce alla seguente dimostrazione: “dopo aver tolto al Congresso il potere di proteggere le minoranze locali dall’oppressione delle maggioranze formatesi nei parlamenti degli Stati, la giurisprudenza, con una seconda evoluzione, l’ha conferito alla magistratura, sia statale che federale. (…) Questo nuovo orientamento è stato provocato dalle nuove direzioni impresse dall’industrializzazione della società al police power della mano pubblica, definito dalla Corte Suprema, sin dal 1885, come il potere di dettare regole per promuovere la salute, la pace, la morale, l’educazione e il buon ordine pubblico del popolo e di legiferare per accrescere l’industria dello Stato, sviluppare le sue risorse ed aumentare la sua ricchezza e il suo patrimonio.”
Tutto ciò fa notare il nostro autore portò i privati e le società commerciali, impegnate nella prestazione di servizi di utilità pubblica, a rivolgersi ai tribunali per far dichiarare incostituzionali sulla base del XIV emendamento quegli atti legislativi che limitavano l’esercizio della loro liberà d’iniziativa economica. In un primo momento i giudici si rifiutarono di dar luogo a questa estensione del loro controllo di costituzionalità delle leggi.
Così nel caso Munn v. Illinois (1877), affrontato dalla Waite’s Court, affiorò un tentativo della corte di affermare la legittimità della regolamentazione statale, in nome del “public interest”.
Questa propensione diventò ancor più solida nel celebre “Santa Clara case” del 1886, in cui la Corte, riconoscendo le ragioni d’una multinazionale, designò le “economic corporations” come legittime destinatarie degli assunti garantistici del XIV° emendamento: "La corte non desidera ascoltare alcuna discussione sulla questione se la misura contenuta nel Quattordicesimo Emendamento alla Costituzione, che proibisce ad uno Stato di rifiutare a chiunque all'interno della sua giurisdizione la uguale protezione da parte delle leggi, si applichi oppure no a queste compagnie. Siamo tutti dell'opinione che lo faccia.
Le imputate corporazioni sono persone giuridiche incluse nell'intento della clausola nella Prima Sezione del XIV° emendamento alla Costituzione degli Stati Uniti, che proibisce ad uno Stato di rifiutare a chiunque all'interno della sua giurisdizione la uguale protezione delle leggi". Le “economic corporations” venivano dunque elevate al piano del singolo individuo e in virtù di questo si restringeva ancor più la prospettiva di quel “public interest” paventato dal Munn v. Illinois.
Anche se è significativa la risposta data dalla Corte Suprema in uno dei Granger cases del 1876 ad una istanza di applicazione della due process clause: “Sappiamo che il police power è un potere di cui si può abusare; ma ciò non costituisce un argomento contro la sua esistenza. Per ottenere tutela contro gli abusi del legislatore, è alle schede elettorali che il popolo deve ricorrere, e non alle corti.” Il concetto relativo alla due process clause viene approfondito dallo stesso Lambert con riferimento allo studio del giudice Hough. Infatti l’analisi fatta dall’autore mette in evidenza che “sebbene la due process clause sia stata introdotta nella costituzione sin dal 1791 con il V emendamento, i giuristi del periodo precedente alla guerra di secessione non avevano pensato che essa potesse servire ad arginare i primi sconfinamenti del potere di polizia, e generalmente concordavano nel considerare ricompresi nella nozione di due processo of law tutti i meccanismi legali istituiti per l’applicazione del diritto, tutte le azioni giudiziarie condotte secondo regole generali di procedura, senza distinguere se essi avessero origine nell’antico common law o in statutes recenti; e ricorda, inoltre, che all’epoca del suo esordio nell’avvocatura “i richiami al due process erano rari e, ad eccezione del caso dei neri, di esito mai felice, salvo che per gli aspetti procedurali.””
Come d’altronde lo stesso autore ci fa presente nel corso del tempo il potere giudiziario ha rinunciato sotto varie pressioni a questo atteggiamento di riserbo.
Lo stesso giudice Hough è dell’avviso che la tendenza di censore della Corte suprema nei confronti degli Stati si è consolidata tra il 1883 e il 1890. A rafforzare tale opinione vi sono anche gli studi fatti da Dobbyns su le sentenze Davidson v. New Orleans (1877) e Missouri Pacific Ry v. Humes (1885).
Infine, Dobbyns ribadisce il principio della ragionevolezza presente nelle sentenze della Corte nei casi Chicago v. Milwaukee e St Paul Ry v. Minnesota, in cui si trova scritto: “l’esame della ragionevolezza delle leggi che regolano le tariffe ferroviarie è questione eminentemente rimessa all’indagine giudiziale e soggetta al due processo of law per la sua determinazione.”.
3.2 – Un nuovo orientamento della Corte Suprema a partire dal 1890
Dal 1890 in poi vi è, quindi, un nuovo orientamento giudiziario della Corte Suprema che ha condotto ad un enorme numero di ricorsi diretti all’invalidazione giudiziale di leggi sulla base del XIV emendamento. E così nel 1898, che le leggi tributarie, anche relative a materie per le quali è costituzionalmente ammissibile l’imposizione fiscale, possono, se paiono ingiuste o irragionevoli, essere invalidate dall’autorità giudiziaria perché consistenti in una privazione di proprietà compiuta senza legittima procedura legittima. Nel 1897, che qualsiasi statute restringendo o regolamentando la libertà contrattuale dei privati, può essere considerato in contrasto con il XIV emendamento, se le ragioni alla base dell’ostacolo posto al libero gioco del Laisse-faire economico non siano state giudicate sufficienti dalla Corte medesima. Naturalmente, tutto ciò portava, all’inizio del XX secolo, la Corte ad avere uno strumento che gli garantiva l’esercizio di una tutela sul potere legislativo. Tale strumento poggiava su quattro assi essenziali. Il primo costituito dal due process of law, concepito come abilitazione dei tribunali a sanzionare, tra le procedure previste dagli statuti, quelle che paiono loro illegittime; il secondo asse, dal divieto della deprivation of liberty, considerato quale garanzia del cittadino non più solamente rispetto alle costrizioni fisiche come l’incarcerazione, ma contro ogni impedimento al libero esercizio della sua attività economica; il terzo, dal divieto della deprivation of property, riferita non più soltanto all’espropriazione, ma a tutte le limitazioni della proprietà nel suo significato più ampio, comprensivo anche delle forme più diverse della ricchezza acquisita o in via di realizzazione; il quarto, dal divieto, espresso dall’articolo 1, sezione 10 della costituzione, di emanare leggi che indebolissero l’obbligo dei contratti, interpretato nel senso di precludere al legislatore l’ingerenza negli scambi negoziali allo scopo di dosarne o limitarne gli effetti. Oltre a tali assi il potere giudiziario aveva anche due importanti criteri, espressione giuridica di due opposte tendenze politiche di cui la magistratura americana ha tentato la composizione. Il primo fondato sulla ragionevolezza delle misure legislative. In particolare tale giudizio comporta la disamina della conformità di una norma al principio di eguaglianza tenendo conto della variabilità delle situazioni che si possono verificare storicamente e verificando "perché" una determinata disciplina operi quella specifica distinzione; questa disamina, ispirata al rispetto del principio generale di conservazione dei valori giuridici: e di quello dei confini del sindacato di legittimità, non consente apprezzamenti nel merito delle opzioni legislative, pena lo sconfinamento del controllo di legittimità in una verifica di opportunità. Il secondo, invece, costituito dal criterio dell’expediency, cioè dell’opportunità e dell’incidenza economica degli atti legislativi.
A tal proposito Lambert sostiene: “vi è, da una parte, la preoccupazione di contenere lo statute law nei ranghi tradizionali del common law, e di piegarlo alle concezioni individualiste ereditate dal diritto inglese e consolidatesi, in terra americana, durante l’epoca coloniale. (…) D’altra parte la giurisprudenza costituzionale ha dovuto preoccuparsi di permettere l’adattamento progressivo del common law alle esigenze concrete dell’attuale organizzazione sociale e di lasciar proseguire quelle sperimentazioni legislative che le parevano ad un tempo legittime e deliberate con sufficiente cautela e ponderazione.”
3.3 – La resistenza alla legislazione sul lavoro della Corte Suprema Federale e il diritto di associazione sindacale
Lambert inizia a discutere della resistenza alla legislazione sociale dividendo l’argomento principalmente in due sezioni: l’opposizione delle corti statali alla legislazione del lavoro e l’atteggiamento della Corte Suprema federale riguardo al contratto collettivo di lavoro. In merito alla prima sezione lo studioso incomincia con l’analizzare il saggio dedicato da Lynn Barnard al caso della Pennsylvania del 1881.
Infatti, è proprio in quell’anno che il parlamento della Pennsylvania adottò una legge che obbligava le grandi compagnie carbonifere a retribuire i loro dipendenti ad intervalli mensili e con moneta legale degli Stati Uniti, dichiarando nulla ogni contraria stipulazione nei contratti di lavoro come l’imposizione del pagamento d’una parte del salario con buoni d’acquisto. Inizialmente tale norma fu accettata dai tribunali inferiori; successivamente nel caso Godcharles and Co. V. Wiegman (1886) la Corte Suprema della Pennsylvania dichiarò le prime quattro sezioni della legge incostituzionali in quanto come il giudice Gordon sentenziò tendenti ad “impedire a persone sui juris di stipulare i loro contratti.” Malgrado tale sentenza, il parlamento della Pennsylvania tentò per lungo tempo di legiferare sull’argomento cercando di aggirare il responso del 1886 senza però riuscirci. Nel 1901 finalmente il parlamento della Pennsylvania trovò una scappatoia imponendo una tassa proibitiva su tutti quei buoni acquisto, conferiti in pagamento dei salari, che non fossero convertiti in moneta legale entro trenta giorni. Naturalmente molte delle leggi che disciplinano il lavoro hanno avuto lo stesso tormentato iter. È alquanto semplice ed interessante l’argomentazione portata avanti su tale argomento da Lambert che così scrive:“La regola fondamentale del gioco legislativo, che consiste nello scoprire, nella fitta trama del case law costituzionale, le fessure attraverso cui far passare le restrizioni del laisser-faire economico reclamate sia dalle associazioni operaie che dalle leghe dei consumatori ha conferito all’insieme complessivo di questa branca dello statute law americano una fisionomia cauta e timorosa.” L’esempio portato su tale argomentazione è quello dei Workmen’s compensation Acts.
Naturalmente, una simile situazione fu causa in quegli anni di un infruttuoso tentativo d’imbrigliare le magistrature statali. Così, nel 1914 uno statute federale autorizzò la revisione da parte della Corte Suprema federale dei casi, decisi dalle Corti degli Stati, nei quali una legge statale fosse stata dichiarata invalida in quanto contraria alla costituzione o alle leggi degli Stati Uniti. Ma questa riforma non ha prodotto i risultati attesi.
In merito all’atteggiamento della Corte Suprema Federale nei riguardi del contratto collettivo di lavoro, l’analisi di Lambert inizia il suo iter citando un’emblematica e non isolata vicenda dell’indirizzo della Corte Suprema della Reconstruction nota come il caso Lochner v. New York[2][33] (1905): infatti, la Corte in tale occasione invalidò una legge a difesa dei salari e di un umano orario di lavoro nei panifici, giustificandosi con la presunta tutela della libertà contrattuale dell’azienda[3][34]. Tutto ciò per affermare come l’assoggettamento della giurisprudenza della Corte Suprema Federale non è sempre stato all’insegna dell’uniformità e della moderazione. Successivamente, lo studioso, seguendo l’analisi fatta da Reed Powel, ha appurato come la Corte Suprema Federale abbia dato un colpo di freno alla legislazione sul contratto collettivo con tre sentenze, frutto d’una Corte divisa e di maggioranze limitate. In particolare si fa riferimento alle sentenze Adair v. United States (1908), Coppage v. Kansas (1913) e Hitchman Coal and Coke Co. v. Michell and al. (1917). Attraverso il confronto di queste tre sentenze Lambert ha, quindi, verificato l’atteggiamento dei tribunali prevalentemente indirizzato verso una missione sociale ed economica. A supporto di tale considerazione viene citata la sentenza Adams v. Tanner, il Child labor law case (1918), la sentenza Wilson v. New et al. (1917), la sentenza Stettler v O’Hara nell’Oregon minimum wage case.
L’analisi fatta da Lambert risulta importante per capire principalmente l’atteggiamento della maggioranza in seno alla Corte Suprema nei confronti della legislazione del lavoro. E così attraverso la divergenza tra le opinioni costituzionali dei giudici si è giunti al meccanismo di verifica giudiziaria della costituzionalità di tale legislazione.
Anche se in un quadro generale di diritto del lavoro non meno importanti sono alcune sentenze scaturite in seguito a regolamentazioni e razionalizzazioni del sistema economico.
Per comprendere ancor meglio l’intensità con cui la CorteSuprema ha agito in tale disciplina sarà utile ritornare per un attimo al 1890. Infatti, nel corso di quest’anno, proprio attraverso lo Sherman Antitrust Act, gli Stati Uniti si erano dotati di legge che dichiarava illegale qualsiasi accordo collusivo tra imprese e rendeva sostanzialmente eccessiva una utilizzazione per così dire strumentale del diritto del lavoro. E’ noto peraltro come lo Sherman Act fosse stato originariamente utilizzato anche in funzione repressiva dell’associazionismo sindacale: oggetto di contrastanti decisioni da parte delle Corti federali di grado inferiore, la questione della applicabilità della disciplina antimonopolistica al sindacato venne affrontata dalla Corte Suprema degli Stati Uniti per la prima volta nel caso Loewe v. Lawlor del 1908. In questa decisione la Corte Suprema, una volta premesso che «il testo della legge non pone distinzioni di classi», ma anzi dichiara illecito «ogni contratto, associazione o accordo diretto a limitare il commercio», non esitò infatti a ritenere riferibile la legislazione antitrust anche al lavoro organizzato; è evidente la diversa portata che, in questo quadro legale, avrebbe potuto assumere il principio secondo cui «il lavoro non è una merce»: più che giustificare il monopolio pubblico del collocamento esso avrebbe invece finito con il legittimare quantomeno di fatto il monopolio sindacale sul mercato del lavoro. Ed in effetti, il «Clayton Antitrust Act» del 15 ottobre 1914, nell’emendare il testo dello «Sherman Antitrust Act», recepì integralmente il suddetto principio tanto da far parlare della legislazione antimonopolistica come della Magna Charta del lavoro. L’art. 6 del «Clayton Act» affermava testualmente: «il lavoro di un essere umano non è né una merce né un articolo di commercio. Niente di quanto è previsto nelle leggi antimonopolistiche deve essere interpretato nel senso di proibire la costituzione e l’attività delle associazioni dei lavoratori (…) costituite a fini di reciproco aiuto purché prive di capitale azionario e non dirette a scopo di lucro; o di vietare alle persone iscritte a queste associazioni di perseguire lecitamente i loro obiettivi. Le predette associazioni e i loro membri non potranno essere ritenute associazioni illecite o cospirazioni miranti ad interferire nelle attività commerciali, ai sensi della legislazione antimonopolistica»; l’art. 6 del «Clayton Antitrust Act» si rivelò ben presto una «formula vuota», e in ogni caso facilmente “manipolabile” da una giurisprudenza poco incline ad assecondare gli interessi del lavoro.
Chiamata a pronunciarsi sulla liceità di un boicottaggio realizzato nei confronti di una impresa dedita al commercio interstatale che rifiutava la stipulazione di un «closed shop agreement» con il sindacato, la Corte Suprema degli Stati Uniti, nel celebre caso Duplex Printing Press Co. v. Deering del 1921, non esitò infatti a precisare che il «Clayton Act» si limita ad affermare che «le associazioni sindacali in quanto tali non possono essere considerate — a causa della loro esistenza o attività — alla stregua di associazioni illecite» ai sensi delle legislazione antimonopolistica: altra cosa, invece, è giudicare della liceità del loro operato che rimane infatti soggetto alla normativa antitrust.
I tribunali inoltre continuavano a convalidare il cosiddetto contratto maledetto che impegnava l’operaio a non iscriversi ad un sindacato se teneva al posto, come pure approvavano le ingiunzioni di legge contro gli operai alle quali spesso ricorrevano gli industriali per impedire gli scioperi.
Robert La Follette, celebre governatore democratico radicale del Wisconsin, promotore di un programma di severe riforme che affrancandosi da un’assemblea legislativa spesso restia, riuscì a dare un regolamento efficace alle ferrovie, stabilì imposte sui redditi e sulle eredità, pose limiti alla corruzione e alle manovre di corridoio, regolamentò banche e compagnie d’assicurazione, limitò le ore di lavoro di donne e bambini, adottò il sistema meritocratico negli impieghi pubblici e le elezioni primarie per la scelta dei candidati di partito, non ebbe difficoltà a definire la Corte Suprema del periodo come la “vera padrona del popolo Americano”, invitando apertamente il Congresso ad assumersi il potere di rendere di nuovo valide le leggi annullate dalla stessa. Lo sfogo del politico evidentemente rifletteva una situazione non più tollerabile, in cui la frizione tra il conservatorismo della Corte suprema e le richieste d’una società più dinamica si faceva sempre più forte e pressante.
La stessa mentalità liberale che coniava la società americana dalla sua nascita sembrava assurgere a gretta ideologia e soprattutto giunse a soffocare ogni minima pulsione morale e solidale. Lo stesso Arthur Schlesinger ne la sua “Età di Roosevelt” non esita a definirli anni di delirio collettivo, in cui perfino il presidente della Corte Suprema nel 1922 poteva affermare: “Ogni tanto è giusto porre un freno alle aspirazioni del sindacato”.
Fu solo superando numerose resistenze che la giurisprudenza americana si astenne nel corso del tempo dall’utilizzare le «antitrust laws» in funzione antisindacale; una volta riconosciuto che il diritto di associazione sindacale è esso stesso un corollario del dogma della libera concorrenza, in quanto strumento per bilanciare i fattori che determinano il potere contrattuale, era peraltro naturale assegnare al contropotere sindacale anche un ruolo di primo piano nella razionalizzazione del sistema produttivo. Come nei Paesi a tradizione «étatiste» il diritto del lavoro nasce per sottrarre il lavoro alla concorrenza, così nel sistema americano saranno le clausole di sicurezza sindacale a svolgere una funzione analoga rendendo (anche per questo motivo) superflua una disciplina legale inderogabile dei rapporti di lavoro. Da questo particolare punto di vista, ben poco cambierà con la normativa di sostegno del sindacato e della contrattazione collettiva delineata nel «Wagner Act» del 5 luglio 1935: normativa che, non a caso, troverà il suo fondamento costituzionale nella clausola sull’interstate commerce (art. 1, sezione 8), e cioè nell’obiettivo del legislatore federale di contenere se non eliminare le cause di conflitto tra lavoratori e imprenditori che ostacolano il commercio tra uno Stato e l’altro dell’Unione.
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