sabato 1 maggio 2010

Lo Stato di diritto nell’esperienza americana: il ruolo della Corte Suprema nel controllo della costituzionalità delle leggi

Romano Pesavento
giornalista pubblicista
J. Marshall e l’affermarsi del ruolo della Corte Suprema degli Stati Uniti


2.1 Marbury contro Madison 1803

Il processo Marbury v. Madison fu uno dei casi più importanti nella storia della giurisprudenza statunitense; infatti, la sentenza che fu pronunziata dalla Corte Suprema degli Stati Uniti nel 1803 stabilì il principio del controllo giudiziario della costituzionalità delle leggi, anche federali, ed instaurò il sistema del judicial review esercitato dalle corti americane. I fatti che costituirono l’oggetto di tale controversia meritano di essere illustrati.
Il 4 marzo 1801 Thomas Jefferson, l’educato colono della Virginia e appartenente al partito democratico repubblicano, fu eletto presidente degli Stati Uniti e succedette al presidente “federalista” John Adams.
Nonostante, Jefferson desse inizio al suo mandato con un appello all’armonia (“Siamo tutti repubblicani, siamo tutti federalisti” dichiarò nel suo discorso inaugurale) sin dai primi periodi cominciò a dichiarare guerra al potere giudiziario federale.
Nel 1801, in prospettiva di tale situazione, i federalisti avevano cercato di trasformare il sistema giudiziario in una loro roccaforte attraverso l’approvazione di alcune riforme strategiche (Judiciary Act del 1801)[1][18]. Nel contempo Adams procedette a due nomine: nominò il suo segretario di Stato (parificabile al nostro Ministro degli Esteri), John Marshall, giudice in capo (Chief Justice) della Corte Suprema degli Stati Uniti, e nominò un altro membro del suo partito, William Marbury, ad una carica assai modesta di “Justice of the peace” della contea di Washington, nel Distretto federale della Colombia (si tratta delle cosiddette nomine di Mezzanotte).
La Corte Suprema con a capo Marshall, il quale, ironia della sorte, era dello stesso partito del piccolo giudice (in fieri) Marbury, si trovò ad esaminare quindi i seguenti problemi: “Primo: il ricorrente ha un diritto al conferimento dell’incarico da lui richiesto? Secondo: Se ha un diritto, e questo diritto è stato violato, le leggi del suo paese gli offrono un rimedio? Terzo: Se gli offrono un rimedio, è questo rimedio un’ordinanza emessa da questa Corte?” (Marbury v. Madison, 1 CRANCH 137 (1803))
Naturalmente, il nodo fondamentale che si delineava chiaramente davanti ai giudici era il seguente: la Costituzione degli Stati Uniti d'America non riconosceva alla Corte suprema la competenza di giudicare in casi simili a questo ("In tutti i casi che riguardano un ambasciatore, altri rappresentanti pubblici e consoli, ed in cui è parte uno Stato, la Corte Suprema deve avere giurisdizione di primo grado. In tutti gli altri casi (...) la Corte Suprema avrà giurisdizione d'appello, sia in diritto sia in fatto, con le eccezioni e secondo le regole che il Congresso stabilirà." art. 3, sec.2); mentre esisteva una legge federale votata nel 1789 (Judiciary Act) la quale assegnava la competenza di emettere «Writs of Mandamus» nei confronti di chi esercita il potere in nome degli Stati Uniti d'America.
Si precisa che Marshall era in una situazione in cui aveva la forte necessità di accrescere la credibilitá sua e della corte e decidere a favore di un suo compagno di partito, in qualunque caso, avrebbe costituito un atto rischioso per la sua già fragile posizione.
Il 24 febbraio 1803 fu emessa la sentenza ad unanimità della Corte che risultò decisamente a sfavore di Marbury e che conteneva due elementi fondamentali.
Il primo consisteva nel riconoscere il diritto di nomina a Marbury e quindi il diritto a ricevere la comunicazione. Infatti, troviamo scritto: “E’ quindi, opinione della Corte: Primo: che nel momento in cui ha firmato il conferimento dell’incarico del Sig. Marbury, il Presidente degli Stati Uniti lo ha nominato giudice di pace della contea di Washington, nel Distretto della Colombia; e che il sigillo degli Stati Uniti, apposto dal Segretario di Stato, costituisce testimonianza conclusiva della veridicità della firma e della completezza della nomina; e che la nomina gli conferisce il diritto legittimo a rivestire quell’incarico per la durata di cinque anni. Secondo: che avendo questo titolo legale all’incarico, ha un conseguente diritto al conferimento dell’incarico; e un rifiuto di consegnare questo incarico costituisce una chiara violazione di quel diritto, per la quale le leggi del suo paese gli offrono un rimedio.” (Marbury v. Madison, 1 CRANCH 137 (1803))
Il secondo, invece, affermava che la Corte Suprema non era competente a rilasciare il decreto di ingiunzione. La clausola della legge giudiziaria del 1789, in base alla quale Marbury aveva intentato causa, era contraria alla Costituzione e di conseguenza non valida.
La considerazione si basava sul fatto che se la Costituzione si pone in una posizione gerarchica superiore rispetto alla legge (l'art. VI della Costituzione americana è stato interpretato in questo senso), la legge non può contravvenire a quanto disposto dalla Costituzione e, se questo accade, la legge deve essere privata dei suoi effetti.
Per usare le parole della sentenza: “il popolo ha il diritto originario di stabilire, per il suo futuro governo, quelle regole che ritiene adeguate al conseguimento della felicità [ ... ma... ] i poteri delle camere legislative sono definiti e limitati; la Costituzione è stata posta per iscritto per evitare che questi poteri siano mal compresi o dimenticati. [...] O la Costituzione è una legge superiore prevalente, non modificabile con gli strumenti ordinari, oppure è posta sullo stesso livello della legislazione ordinaria e, come le altre leggi, è alterabile quando il legislatore ha piacere di alterarle. Se la prima parte dell'alternativa è vera, allora una legge contraria a Costituzione non è legge; se la seconda parte è vera, allora le Costituzioni scritte sono un tentativo assurdo, da parte del popolo, di limitare un potere per sua stessa natura illimitabile.” (Marbury v. Madison, 1 CRANCH 137 (1803))
Il controllo giudiziario di costituzionalità delle leggi si è così introdotto senza scontri di nessun tipo in America, in occasione di una causa dove, lungi dal pretendere di affermare la sua supremazia, la Corte suprema giudicava incostituzionale una legge che le conferiva certi poteri.
La sentenza Marbury v. Madison, per giunta, dava soddisfazione al potere esecutivo. Si capisce come quest’ultimo non abbia protestato contro il principio, pur ricco di implicazioni per l’avvenire, che veniva in tal modo consacrato.
Di questo principio fu fatto, durante il XIX secolo, un uso assai moderato, di modo che esso, nella sostanza, non venne mai seriamente discusso negli Stati Uniti. Esso costituisce, ai giorni nostri, una delle differenze più cospicue che esistono fra la struttura costituzionale americana da una parte, e quella inglese dall’altra.


2.2 - John Marshall, l’uomo e la sua formazione politica

Sicuramente, tra i personaggi politici più importanti della storia del diritto degli Stati Uniti merita un posto di riguardo il convinto federalista virginiano John Marshall. Nato vicino a Germantown da Thomas Marshall e Mary Randolph Keith. Le sue origini sociali, come del resto quelle di altri illustri personaggi, avevano radici nel vasto ceto della classe media. Il suo bisnonno sembra sia stato carpentiere. Durante la guerra di indipendenza servì Continental Army e divenne amico di George Washington, fu tenente dal 1775 sino al 1780. Vinse poi un seggio nel 1782 nella Virginia House of Delegates (una delle due camere, per la precisione la camera bassa dell'assemblea generale della Virginia). Per i suoi gusti e i suoi modi, Marshall vestiva semplicemente, faceva lui stesso la spesa al mercato, amava le carte, i liquori e le allegre partite di ferri da cavallo o di piastrelle. Ma, per le sue tendenze politiche, rappresentava piuttosto i circoli affaristici e professionali di grandi centri come Boston e New York. E alcune sue memorabili decisioni, frutto di uno spirito acuto, mostrano che egli era dominato da due principi cardinali: la sovranità del governo federale e la sanità della proprietà privata.
Lontano parente di Jefferson, che lo detestava al pari della sua politica, Marshall rimase presidente della Corte Suprema fino al 1835, un quarto di secolo dopo il ritiro di Jefferson dalla vita pubblica. Di conseguenza, mentre il partito federalista non vinse più alcuna elezione nazionale, i principi costituzionali del federalismo continuarono a essere sostenuti dalla Corte Suprema per un periodo corrispondente al mandato di cinque presidenti. Per di più Marshall doveva dimostrare un’influenza decisiva nello sviluppo della legge costituzionale americana.
Come sappiamo non era un giurista, ma un politico e, non avendo nessuna esperienza giuridica, aveva la forte esigenza, da una parte di dare credibilità a se stesso quale presidente della Corte e, dall'altra, di dare credibilità alla Corte stessa, la quale era stata resa operativa solo pochi anni prima (1789) con l'entrata in vigore della nuova Costituzione.
Con un’audacia temperata dall’abilità ampliò di molto la giurisdizione della Corte Suprema trasformandola in un qualcosa che era più di un organo di coordinamento governativo. Contemporaneamente ampliò i poteri federali a scapito di quelli statali.
Le sue sentenze erano stilate con una logica magistrale, che in quasi tutti i casi lasciava convinto l’ascoltatore; semplici nello stile, erano caratterizzate da un forte sapere e da una approfondita analisi. Usava fissare prima le premesse più importanti, passare poi alle deduzioni, demolendo tutte le obiezioni, e trarre infine le conclusioni, ampiamente sostenute da citazioni e illustrazioni.
Nell’esame di una cinquantina di casi che esigevano chiare decisioni costituzionali, s’ispirò sempre a una ben matura filosofia politica. E, poiché essi si riferivano a quasi tutte le parti importanti della Costituzione, questa, al termine del suo lungo ufficio, finì con l’essere applicata dai tribunali di tutto il paese in gran parte secondo l’interpretazione che egli ne aveva data.
Ed ecco le sue principali decisioni. Nel caso Marbury contro Madison (1803), già esaminato, egli sancì, definitivamente, il diritto della Corte Suprema di rivedere qualsiasi legge, sia del Congresso sia delle assemblee statali. “È indiscutibili competenza e dovere del dipartimento giudiziario dire che cos’è legge”. Nel caso Cohens contro Virginia (1821) demolì gli argomenti di coloro che sostenevano doversi considerare definitiva la sentenza di una Corte statale in controversie sorgenti nell’ambito di leggi federali. Mettendo anzi in rilievo la confusione che tale principio avrebbe ingenerato nel paese, - perché ogni singolo stato avrebbe avuto proprie particolari opinioni in fatto di validità di leggi nell’ambito della Costituzione o dei trattati federali -, egli insisté perché il giudizio definitivo fosse quello delle Corti federali.
Nel caso McCulloch contro Maryland (1819) trattò l’annosa questione dei “poteri impliciti” del governo nell’ambito della Costituzione, prendendo coraggiosamente la difesa della teoria hamiltoniana, secondo la quale la Costituzione conferisce implicitamente al governo poteri che essa non stabilisce in modo specifico. Nel caso Gibbons contro Ogden (1824) Marshall estese il potere del Congresso di regolamentare il commercio ad ogni attività che avesse un impatto interstatale, anche se indiretto, con la conseguenza che restavano escluse solo le materie di interesse meramente interno. L’importanza di tale interpretazione consiste nel fatto che il giudice Marshall fu il primo ad elaborare il concetto di externalities, inteso come conseguenza dell’attività di un individuo che può avere un’influenza positiva (“beneficio”) o negativa (“costo) sull’attività di un altro individuo. Ad esempio, i programmi di aggiornamento nell’industria erano considerati dei “benefici”, in quanto aumentavano il livello culturale degli impiegati. Al contrario, l’inquinamento prodotto dall’industria
era considerato un possibile “costo”. La presenza, dunque, di externalities giustificava l’intervento dello Stato centrale nel libero mercato nel caso in cui esse producevano “benefici”, e legittimava il passaggio dei poteri decisionali dai livelli di governo più bassi a quelli più elevati. La Costituzione dava al Congresso il diritto di regolare il commercio interstatale; e, in caso derivante da una disputa circa i diritti dei piroscafi sul Hudson, Marshall sentenziò che questo diritto di regolamentazione nazionale dovesse essere interpretato in maniera lata, e non ristretta. Nel caso del Collegio di Dartmouth contro Woodward, Marshall applicò ai contratti la clausola della Costituzione per sostenere la intangibile validità di una carta di associazione e negò, di conseguenza, agli atti il potere di modificarla. Nel complesso, Marshall non fu inferiore a nessuno sull’opera di rendere il governo centrale del popolo americano una forza viva e crescente.

2.3 – McCulloch contro Maryland (la teoria dei poteri impliciti)

Il nazionalismo acceso che ispirava “il sistema americano” fu affermato ancor più nettamente dalla Corte Suprema. In una serie di importanti sentenze, il presidente della Corte Suprema Marshall prese posizione contro coloro che sostenevano che il potere federale doveva essere rigidamente limitato.
Quella più famosa fu pronunciata nella causa McCulloch contro Maryland del 1819. Lo stato del Maryland aveva tentato di ostacolare il funzionamento di un ramo della seconda banca degli Stati Uniti (banca fondata per affrontare le difficoltà incontrate da parte dell'amministrazione del presidente degli Stati Uniti d'America James Madison, 4° presidente).
Il Maryland chiedeva la sua incostituzionalità, ma in precedenza aveva imposto una tassa proibitiva per l'epoca a tutte le banche che emettevano banconote non autorizzate da quello Stato. James McCulloch, che ricopriva la massima autorità per quanto riguarda il ramo di Baltimora della seconda banca degli Stati Uniti, si rifiutò di pagare la tassa. Iniziò una causa fra lo stato e McCulloch che venne inizialmente presentata innanzi a John James, e poi davanti alla Corte d'Appello del Maryland finendo poi alla corte suprema.
Marshall fece riferimento alla teoria hamiltoniana dei “poteri impliciti” della Costituzione e affermò inoltre che il governo nazionale era pienamente sovrano nella propria sfera e non semplicemente una creatura degli stati.
In questa causa fu ritenuto che l’istituzione di una banca, per quanto non specificatamente autorizzata dalla Costituzione, era comunque implicita nella concessione di poteri fiscali al congresso, come previsto dall’Art. I s. 8.
D’altronde, nell’esercitare i suoi poteri costituzionali, il congresso poteva adottare tutti i mezzi appropriati che non fossero esplicitamente vietati dalla Costituzione. Gli stati non avevano dunque alcun diritto di ostacolare l’esercizio dei poteri costituzionali da parte del governo federale. Di conseguenza la Banca, come ente federale legittimo, non poteva essere sottoposta a regolamenti statali.
In definitiva, secondo Marshall, il ricorso ai poteri impliciti doveva essere, quindi, limitato alla sussistenza di due condizioni:
a) il fine doveva essere legittimo, vale a dire previsto dalla Costituzione;
b) i mezzi dovevano essere adeguati al raggiungimento di tale fine e non vietati dalla Costituzione stessa.
“Non dobbiamo mai dimenticare, disse il giudice in capo Marshall, che è una Costituzione quella che noi interpretiamo… Costituzione destinata a durare per secoli e che deve, quindi, essere adattata alle diverse crisi delle vicende umane…”. La Costituzione degli Stati Uniti è legge fondamentale che fissa le basi stesse della società. Non è possibile trattarla alla pari delle altre leggi, che cercano di completare o rettificare un diritto di natura giurisprudenziale mediante la formulazione di regole di dettaglio. Dominando l’edificio della common low, la Costituzione degli Stati Uniti è una legge di tipo romanista, che non mira in via primaria a risolvere controversie, ma che pone regole generali di condotta e i organizzazione destinate ai governanti e agli amministratori. La Costituzione degli Stati Uniti è stata quindi interpretata, per principio, con grandissima elasticità. Tutto lo sviluppo del diritto degli Stati Uniti, la distinzione fra diritto federale e diritto degli Stati, la storia stessa degli Stati Uniti, sono stati guidati dall’interpretazione data dalla Corte suprema ad alcune formule della Costituzione degli Stati Uniti.

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