Tutto l'oro del Marocco
Dal Sahara alle città imperiali: sulle orme dei grandi registi americani
di Romano
Pesavento
Arrivando a ogni nuova città il viaggiatore
ritrova un suo passato che non sapeva più d'avere: l'estraneità di ciò che non
sei più o non possiedi più t'aspetta al varco nei luoghi estranei e non
posseduti. (Italo Calvino,
Le città invisibili, 1972)
È agosto 2012; da
qualche mese lo spettro della Primavera araba si aggira per gli stati
dell’Africa settentrionale. I popoli manifestano e i dittatori tremano; la
polizia lealista spara sulle piazze. Con la valigia e lo zaino a tracolla si
parte per il Marocco. Non è un viaggio particolarmente lungo, ma il continente
africano, così vicino e così lontano, rappresenta da sempre un confine – limite
prima che “fisico”, ideologico. L’Africa: mistero, magia, miseria, arretratezza,
alterità, alfa e omega delle culture.
Casablanca, la Città Bianca ,
vista dall’aereo è una distesa affollata di edifici nuovi, luminosi e piuttosto
occidentalizzati; d’altronde è tra i più grandi agglomerati urbani del mondo
arabo. Gli abitanti in tono irridente sostengono che non abbia una sua
peculiarità, se non quella di essere tra le città marocchine la più “moderna” e
meno autentica. Probabilmente a causa del terribile terremoto che colpì il
Marocco nel 1755.
L’influenza francese è ben tangibile nell’ordine delle strade “razionali” e delle piazze assai lontane dal caos variopinto e terrifico delle medine. Ad ogni angolo si staglia sorniona e compiaciuta la gigantografia del re Mohammed VI che guarda con atteggiamento bonario il suo popolo, mentre centinaia di bandiere rosse con sopra impresso la verde stella islamica addobbano ogni recesso urbano. E già, lui no. Re Mohammed VI pare proprio che non debba preoccuparsi dei sommovimenti e degli scossoni violenti dei suoi turbolenti vicini di casa: Egitto, Algeria, Tunisia, Libia. I “sudditi” marocchini qui sembrano contenti e decantano incessantemente le virtù del loro leader: illuminato come Augusto, paterno e salvifico come Noè. In effetti, di originale la metropoli possiede ben poco: l’imponente moschea di Hassan II (papà di Mohammed VI) la zona balneare della Corniche e la piazza delle Nazioni Unite. Saliamo sul pullman e ci dirigiamo verso Rabat,90
chilometri più a nord. Arrivati sul posto, si notano immediatamente gli ampi
spazi di verde pubblico che decorano la capitale. D’altronde siamo nel
“giardino di Allah”, così viene definita comunemente.
Visitiamo la tour Hassan, il minareto incompleto di quella che doveva essere la moschea più grande del mondo occidentale e il mausoleo di Mohammed VI. Caratteristica è la presenza statuaria delle guardie a cavallo (rigide e impettite nella loro postazione) che si trovano davanti all’ingresso. Il complesso architettonico, datato 1199, contemporaneamente maestoso e incompleto, sprigiona un fascino indefinibile, metafisico, da quadro di De Chirico: 200 colonne lasciate a metà, sormontate da un minareto di ben44 metri , assomigliano più
ad una esperienza onirica che ad una classica prospettiva da cartolina.
Consigliata la “visione” con la luna piena. Superate le mura cittadine, si
giunge a Sala o Chellah, città romana, sorvegliata da colonie di cicogne
innamorate. I nidi laboriosamente intrecciati di questi uccelli sormontano le
antiche colonne romane. Per tutta la visita osservano silenziose gli intrusi
turisti che invadono il loro territorio e ripercorrono le antiche vie tracciate
dai sapienti architetti romani.
Una vasca antica con le anguille ed i gatti di Maometto in estatica contemplazione attirano l’attenzione; la signora marocchina, che custodisce il monumento, ci magnifica le proprietà apotropaiche del lancio, oramai internazionale, della monetina rituale. Ai turisti non è provato che possa portare bene, ma a chi raccoglie , sì. Si torna a Rabat e, dopo una passeggiata serale con la luna piena che sovrastala
Tour Assad , il giorno dopo si va a Mekness.
Prima però di arrivare in città, deviazione, causa eccessivo caldo, per il sito
archeologico romano di Volubilis. I resti romani ammaliano i visitatori,
nonostante i 40°; colonne, volte e archi testimoniano eloquentemente un’epoca
gloriosa, quando il Mare Nostrum
abbracciava e affratellava più genti. I mosaici straordinari abbandonati
all’incuria del solleone, un’enorme, elaboratissima porta romana di epoca
augustea, curiosi simboli fallici (utilizzati a mo’ d’insegna pubblicitaria per
ben orientare i potenziali clienti degli immancabili postriboli) rendono questo
luogo piuttosto simile a Pompei o alla città di Efeso. Dopo qualche chilometro,
eccoci a Mekness, la più maestosa città imperiale, nonché patrimonio mondiale
dell’UNESCO. La tripla cinta muraria, lunga 40 chilometri
costellata di bastioni, che ha custodito, per molto tempo, il luogo,
difendendolo da potenziali nemici, e la porta Bab El Mansour, stupenda
struttura architettonica, sono i suoi segni distintivi.
Da queste parti il Marocco assume la sua fisionomia più autentica; la cortesia ritrosa e pudica degli abitanti, soprattutto nelle donne, le abitazioni inaccessibili allo sguardo curioso del viandante, perché prudentemente dotate di finestre cieche o tendaggi ad hoc, rivelano un’islamizzazione piuttosto rigorosa, senza cedimenti. Il Ramadan è vissuto con forte intensità; la guida raccomanda in più occasioni di rispettare la sensibilità altrui attraverso una condotta severa; gli alcolici non vengono serviti, né devono essere richiesti e le moschee sono precluse ai visitatori occidentali. Dai minareti risuonano i richiami cantilenati del muezzin, mentre la popolazione, decisamente provata dall’astinenza da cibo e bevande protratta anche in un mese torrido come agosto, si aggira trascinandosi come in trance lungo le strade o sdraiandosi sotto il riparo del primo scorcio d’ombra a disposizione.
Perfino i colletti bianchi godono di una riduzione d’orario. E i nostri stessi accompagnatori, con ferrea volontà, continuano a lavorare nonostante l’astensione perfino dall’acqua. Da Casablanca in poi, peggiora vistosamente la condizione femminile; giovani donne e anziane signore passeggiano per le strade con il volto completamente coperto da veli neri; solo i bellissimi occhi appaiono in mezzo a tanta oscurità. In serata, siamo a Fes e il Medioevo sembra risorgere d’incanto dalle profondità del tempo: nei vicoli tortuosi, pericolosi e turbolenti della medina più grande del mondo, perdersi non è poi così difficile. E in quel caso sarebbero seri problemi. I visi, i vestiti, gli atteggiamenti, i mestieri e perfino le aspettative delle persone, qui, hanno ben poco del terzo millennio. I bambini, dotati di una petulanza e protervia rare, indotte dalla disperazione, tampinano senza sosta il turista, contendendoselo a suon di legnate tra di loro o acrobazie di un certo pregio.
Per bene che vada si vivacchia con il commercio: tappeti, vasellame, tuniche colorate, carne di dubbia provenienza e più incerta conservazione, spezie, veli sgargianti e accessori decisamente “folk” concepiti per i matrimoni locali. Quando va decisamente male, il destino è piuttosto crudele: lavorare nella concia del pellame. Visitare questa “azienda” è tutt’altro che un’avventura da “romantica donna inglese”, se si è dotati di un minimo di sensibilità. Chi è addetto alle vasche, muore nel giro di poco tempo, minato dagli acidi e dalle malattie connesse alla manipolazione di escrementi e urina (!) per trattare il cuoio.
L’odore è insostenibile e i poveri disperati impiegati in questi “lager” a vent’anni ne dimostrano cento: scheletrici, cianotici e privi di denti assomigliano a violacei ectoplasmi. Comprare borsette e cinture, ammettiamolo, in questo contesto è proprio impossibile, ma c’è chi lo fa, comunque. Italiani, brava gente. Dopo un’esperienza simile, solo gli spazi trascendenti del deserto possono riconciliarti con il cosmo e con te stesso.
Passiamo attraverso l’Alto Atlante, facendo una breve sosta a Midelt e raggiungiamo i2.178 metri del Colle
Du Zad sull’altopiano desolato punteggiato da Kasbah e oasi. Un breve incontro
ravvicinato con le simpatiche scimmie di un boschetto vicino e, dopo quasi circa 500 chilometri , giungiamo a Erfoud: la porta d’ingresso del
Sahara. Da subito avvistiamo i celeberrimi tuareg, o uomini blu; sono dotati
ormai di telefono satellitare, ma continuano a muoversi lungo interminabili
spazi con pazienti e fidi dromedari. Sta calando il tramonto e il deserto appare
davanti a noi in tutta la sua maestosità. Il viaggio sulla groppa del
quadrupede non è dei più confortevoli, ma l’emozione che si vive pensando ai
viaggiatori, alle carovane, che da quei luoghi sono passati, cancella ogni
fatica. Il sole piano piano scompare dietro le dune di Merzouga alte, dorate e
seriche. Tutto intorno a noi si illumina di colori intensi e morbidi; il
fascino del cielo cremisi, già trapuntato di stelle, fa sognare il “nomade” di
turno a occhi aperti. Dopo una nottata passata nel deserto, si giunge,
l’indomani, dopo una sosta a Tineghir, alle Gole di Todra.
Le pareti scoscese a
strapiombo sono davvero impressionanti: sembra di trovarsi in un canyon statunitense. Il clima e
la vegetazione di questi luoghi si distaccano completamente dai cliché
occidentali sul Marocco. Ai piedi delle gole molte famiglie passano il tempo a
leggere, giocare, riposare o si divertono a tuffarsi e a immergersi tra le
acque fresche del ruscello.
Da qui si giunge a Boumalen sulle gole del Dades, tappa di transizione per la prossima meta: Ouorzazate, meglio nota comela Hollywood del deserto.
Da queste parti sono passati tutti i più grandi attori americani protagonisti di film che hanno
lasciato un segno nella storia del cinema. Uno tra tutti : Il gladiatore. Dopo
una breve visita alle affascinanti Kasbah di Ait-Haddou e Taourirt e il
passaggio del colle Tizi-n-Tichka a 2.260 metri , fra i più alti del Paese, si
arriva a Marrakech. La città più esotica del Marocco rispetta le previsioni del
turista: piazza Djemaa El Fna, girandola di luci, colori, animali e improbabile
cibo da strada, travolge e sconvolge ogni previsione. La sera si accende di
mille bagliori luccicanti anche attraverso le movenze maliarde delle danzatrici
del ventre; tale mestiere, considerando la rigida morale islamica, è assimilato
a quello della prostituta, il cui termine corrispondente, nella lingua locale,
è “ragazza di gioia”. La notte risuona di risate, musiche e balli anche perché,
al tramonto del sole, si conclude il digiuno del Ramadan: colossali tavole
fuori dagli edifici vengono imbandite con ogni tipo di frutta e pietanze.
Particolari sono alcune pentole di forma conica (tajin) in cui viene cucinato il kus kus. La gastronomia marocchina non è adatta agli stomaci delicati: spezie piuttosto forti insaporiscono e occultano i sapori delle vivande. Chi non ama il coriandolo, rinunci stoicamente a mangiare; qui lo metterebbero anche nel latte! Tra le opere architettoniche, meritano di essere viste le tombe Saadiane, i giardini di Menara, il palazzo della Bahia, l’esterno della Koutoubia e il minareto. Il giro in Marocco si conclude con una visita veloce ai monumenti relativi al periodo storico della colonizzazione portoghese di due piccole cittadine Essaouira e El Jadida: un’altra anima di questo straordinario Paese si è dischiusa al nostro sguardo rapito.
L’influenza francese è ben tangibile nell’ordine delle strade “razionali” e delle piazze assai lontane dal caos variopinto e terrifico delle medine. Ad ogni angolo si staglia sorniona e compiaciuta la gigantografia del re Mohammed VI che guarda con atteggiamento bonario il suo popolo, mentre centinaia di bandiere rosse con sopra impresso la verde stella islamica addobbano ogni recesso urbano. E già, lui no. Re Mohammed VI pare proprio che non debba preoccuparsi dei sommovimenti e degli scossoni violenti dei suoi turbolenti vicini di casa: Egitto, Algeria, Tunisia, Libia. I “sudditi” marocchini qui sembrano contenti e decantano incessantemente le virtù del loro leader: illuminato come Augusto, paterno e salvifico come Noè. In effetti, di originale la metropoli possiede ben poco: l’imponente moschea di Hassan II (papà di Mohammed VI) la zona balneare della Corniche e la piazza delle Nazioni Unite. Saliamo sul pullman e ci dirigiamo verso Rabat,
Visitiamo la tour Hassan, il minareto incompleto di quella che doveva essere la moschea più grande del mondo occidentale e il mausoleo di Mohammed VI. Caratteristica è la presenza statuaria delle guardie a cavallo (rigide e impettite nella loro postazione) che si trovano davanti all’ingresso. Il complesso architettonico, datato 1199, contemporaneamente maestoso e incompleto, sprigiona un fascino indefinibile, metafisico, da quadro di De Chirico: 200 colonne lasciate a metà, sormontate da un minareto di ben
Una vasca antica con le anguille ed i gatti di Maometto in estatica contemplazione attirano l’attenzione; la signora marocchina, che custodisce il monumento, ci magnifica le proprietà apotropaiche del lancio, oramai internazionale, della monetina rituale. Ai turisti non è provato che possa portare bene, ma a chi raccoglie , sì. Si torna a Rabat e, dopo una passeggiata serale con la luna piena che sovrasta
Da queste parti il Marocco assume la sua fisionomia più autentica; la cortesia ritrosa e pudica degli abitanti, soprattutto nelle donne, le abitazioni inaccessibili allo sguardo curioso del viandante, perché prudentemente dotate di finestre cieche o tendaggi ad hoc, rivelano un’islamizzazione piuttosto rigorosa, senza cedimenti. Il Ramadan è vissuto con forte intensità; la guida raccomanda in più occasioni di rispettare la sensibilità altrui attraverso una condotta severa; gli alcolici non vengono serviti, né devono essere richiesti e le moschee sono precluse ai visitatori occidentali. Dai minareti risuonano i richiami cantilenati del muezzin, mentre la popolazione, decisamente provata dall’astinenza da cibo e bevande protratta anche in un mese torrido come agosto, si aggira trascinandosi come in trance lungo le strade o sdraiandosi sotto il riparo del primo scorcio d’ombra a disposizione.
Perfino i colletti bianchi godono di una riduzione d’orario. E i nostri stessi accompagnatori, con ferrea volontà, continuano a lavorare nonostante l’astensione perfino dall’acqua. Da Casablanca in poi, peggiora vistosamente la condizione femminile; giovani donne e anziane signore passeggiano per le strade con il volto completamente coperto da veli neri; solo i bellissimi occhi appaiono in mezzo a tanta oscurità. In serata, siamo a Fes e il Medioevo sembra risorgere d’incanto dalle profondità del tempo: nei vicoli tortuosi, pericolosi e turbolenti della medina più grande del mondo, perdersi non è poi così difficile. E in quel caso sarebbero seri problemi. I visi, i vestiti, gli atteggiamenti, i mestieri e perfino le aspettative delle persone, qui, hanno ben poco del terzo millennio. I bambini, dotati di una petulanza e protervia rare, indotte dalla disperazione, tampinano senza sosta il turista, contendendoselo a suon di legnate tra di loro o acrobazie di un certo pregio.
Per bene che vada si vivacchia con il commercio: tappeti, vasellame, tuniche colorate, carne di dubbia provenienza e più incerta conservazione, spezie, veli sgargianti e accessori decisamente “folk” concepiti per i matrimoni locali. Quando va decisamente male, il destino è piuttosto crudele: lavorare nella concia del pellame. Visitare questa “azienda” è tutt’altro che un’avventura da “romantica donna inglese”, se si è dotati di un minimo di sensibilità. Chi è addetto alle vasche, muore nel giro di poco tempo, minato dagli acidi e dalle malattie connesse alla manipolazione di escrementi e urina (!) per trattare il cuoio.
L’odore è insostenibile e i poveri disperati impiegati in questi “lager” a vent’anni ne dimostrano cento: scheletrici, cianotici e privi di denti assomigliano a violacei ectoplasmi. Comprare borsette e cinture, ammettiamolo, in questo contesto è proprio impossibile, ma c’è chi lo fa, comunque. Italiani, brava gente. Dopo un’esperienza simile, solo gli spazi trascendenti del deserto possono riconciliarti con il cosmo e con te stesso.
Passiamo attraverso l’Alto Atlante, facendo una breve sosta a Midelt e raggiungiamo i
Da qui si giunge a Boumalen sulle gole del Dades, tappa di transizione per la prossima meta: Ouorzazate, meglio nota come
Particolari sono alcune pentole di forma conica (tajin) in cui viene cucinato il kus kus. La gastronomia marocchina non è adatta agli stomaci delicati: spezie piuttosto forti insaporiscono e occultano i sapori delle vivande. Chi non ama il coriandolo, rinunci stoicamente a mangiare; qui lo metterebbero anche nel latte! Tra le opere architettoniche, meritano di essere viste le tombe Saadiane, i giardini di Menara, il palazzo della Bahia, l’esterno della Koutoubia e il minareto. Il giro in Marocco si conclude con una visita veloce ai monumenti relativi al periodo storico della colonizzazione portoghese di due piccole cittadine Essaouira e El Jadida: un’altra anima di questo straordinario Paese si è dischiusa al nostro sguardo rapito.
Pubblicato sulla rivista la Provincia Kr n.1-2 / Gennaio - Febbraio 2014.
Reportage fotografico presente nel mio profilo Facebook.
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