Fino al 24 luglio va in scena la
grande arte di Peggy e Solomon Guggenheim nelle sale di palazzo Strozzi a
Firenze. La mostra ,”Da Kandinsky a Pollock”, è un’esperienza di rara potenza
evocativa, che, attraverso un itinerario nella storia dell’iconografia tra gli
anni venti e sessanta dello scorso secolo, ci riconsegna 100 opere d’arte
europea (Kandinsky, Duchamp, Max, Ernst, Alberto Burri, Emilio Vedova, Jean
Dubuffet, Lucio Fontana) e americana (Jackson Pollock, Mark Rothko, Alexander
Calder, Willem de Kooning, Robert Motherwell, Roy Lichtenstein, Cy Twombly) tra
le più innovatrici del Novecento.
L’inizio è folgorante: il
celeberrimo quadro di Vasily Kandinsky, denominato Curva dominante (Courbe
dominante), attira i visitatori e celebra la bellezza nella sua dimensione più
incorporea. I colori del pittore russo non sono l’esito di una semplice
alternanza gestuale casuale; sono pensati secondo corrispondenze assai
ponderate, in base alle quali a una tonalità si abbina uno strumento musicale e
un sentimento interiore. Le geometrie presenti nel dipinto si dispongono in
modo armonico e gioioso in perfetta simmetria tra rette, cerchi, rettangoli e
curve vibranti, la cui modulazione intrinseca richiama il ritmo del diapason o
del metronomo. Il brio, la genialità, la vitalità, la sperimentazione di Kandinsky
lo rendono un alfiere dell’arte contemporanea e in un certo senso lo avvicinano
al genio musicale di Mozart.
Un momento bizzarro della mostra
è trovarsi, nella sala intitolata “Europa-America. Il Surrealismo e la nascita
delle nuove avanguardie”, di fronte alla famosa Gioconda con barba e baffi
di Marcel Duchamp, opera intitolata in
modo assai stravagante L.H.O.O.Q. da Boîte en-valise. Monna Lisa, con i
baffetti da moschettiere, fissa, ancora più ironica e vagamente beffarda, i
visitatori, lasciandoli interdetti e disorientati, rispetto allo sberleffo puerile
- trasgressivo del surrealista più eccentrico e “impavido” del Novecento.
Alla terza sala c’è lo sciamano
dei colori. Si capisce Pollock solo se si ha la possibilità di vederlo, in
qualche filmato di repertorio, danzare ritmicamente in trance intorno ai suoi
dipinti, lasciando effondere fluidi pittorici e anima attraverso pennelli e
cazzuole sgocciolanti. Per l’artista la tela era uno spazio fisico a cui
appartenere: corrispondeva allo scenario su cui si materializzavano arcane
armonie astratte e ipnotiche, come spirali e gorghi sinuosi su cui fare errare
lo sguardo. Tra le opere presenti alla mostra spiccano per intensità espressiva
“Sentieri ondulati” (Watery Paths) 1947, olio su masonite, cm 114 x 86;
“Foresta incantata” (Enchanted Forest) 1947, olio su tela, cm 221,3 x 114,6;
“Senza titolo (Argento verde)” (Green Silver) 1949 circa, smalto e pittura
d’alluminio su carta montata su tela, cm 57,8 x 78,1; “Numero 18” (Number 18)
1950, olio e smalto su masonite, cm 56 x 56,7.
Nelle linee che, frenetiche, si
dipanano, si inseguono e si accavallano, come scariche elettriche o onde
elettromagnetiche, ritroviamo “spie” dell’energia universale, della tensione
verso l’Assoluto e dell’infinita inquietudine esistenziale dell’uomo. I colori
viaggiano senza direzione in balia delle tempeste emozionali del pittore e
delle correnti gravitazionali. Visione e furia psichedelica si uniscono e
determinano una qualità artistica decisamente poco convenzionale: Pollock è
sempre stato un iconoclasta per elezione o per caso. La sua “action painting”,
nervosa e fluttuante, era il veicolo più appropriato per esprimere il proprio
modo di essere.
Conclude il percorso la sala “Gli
anni sessanta. L’inizio di una nuova era”. Qui campeggia un pannello enorme di
Roy Lichtenstein, indiscusso protagonista della Pop Art insieme a Andy Warhol,
intitolato “Preparativi”. La rappresentazione, fra tutte quelle esposte, è la
più ambigua e inquietante, perché si presta a molteplici letture, al di là di un
primo impatto immediato fatto di colori fluo e grafica fumettistici. La
luminosità delle immagini non deve ingannare: come contrappunto si stagliano i
simboli dell’industria bellica totalitaria di massa. Martelli, elmetti, ciminiere
sinistre, molto simili a bocche da fuoco, profili antropomorfi, vagamente
rassomiglianti a Mussolini s’intravedono, alternandosi a ingranaggi dentati e
strani macchinari di fabbriche metallurgiche
infernali. Preparativi? Che non preludono a nulla di buono, considerando che
l’opera è stata realizzata nel 1968, anno costellato da manifestazioni di
protesta, di scontri e gravi sommosse per la guerra in Vietnam, ma anche di
attentati e omicidi (il 6 giugno 1968 venne assassinato Robert Kennedy); in
essa ritroviamo la lungimiranza dolorosa dell’intuizione espressiva degli artisti,
che, talvolta, riesce a cogliere un’intera epoca in tutte le sue contraddizioni
e drammaticità.
Pubblicato sul giornale online la Provincia Kr (http://www.laprovinciakr.it/cultura-e-spettacoli/da-kandinsky-a-pollock-un-viaggio-nell-arte-del-900-tra-le-sale-di-palazzo-strozzi-a-firenze)